- A seguito degli attacchi di Parigi nel 2015, il presidente Hollande aveva proclamato lo stato d’emergenza, che fu prorogato per ben cinque volte. È durato quasi due anni, si è trattato del più lungo stato d’eccezione nella storia della Quinta Repubblica.
- Nel 2017, il presidente Macron ha voluto sostituire il regime emergenziale con una legge antiterrorismo, la legge numero 1510.
- Nel 2020, nonostante il lockdown di vari mesi, si sono verificati otto attacchi terroristici in Francia. Nel 2019 il paese ha avuto il più alto numero di arresti per terrorismo in Europa (202), mentre l’Italia appena 18.
Gli attentati terroristici di Nizza e contro il consolato francese di Gedda, in Arabia Saudita, sono senz’altro legati alla recente escalation fra il presidente Emmanuel Macron e il leader turco Recep Tayyp Erdogan, innescata dalle caricature del profeta islamico. Sebbene il ministero degli esteri turco si sia affrettato a condannare con forza gli attacchi, la retorica infuocata di Ankara contro la Francia ha contribuito a mobilitare individui già radicalizzati.
Le dichiarazioni di Erdogan, come quelle del primo ministro pakistano Imran Khan e del malese Mahathir Mohamad, favoriscono la polarizzazione e la violenza: questa è la controversa tesi del governo francese, secondo cui esiste un legame fra l’islamismo politico e il terrorismo.
Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanine sostiene che alcune organizzazioni islamiche e singoli individui offrano una giustificazione ideologica a chi poi passa all’azione. Nel caso di Samuel Paty, insegnante decapitato da un giovane salafita ceceno, è indagato anche Brahim Chnina, un genitore marocchino che aveva chiesto sui social di intervenire contro Paty, definito «malato» e «delinquente».
Anche il predicatore Abdelhakim Sefrioui, membro del consiglio degli imam francesi, si era recato a scuola per chiedere il licenziamento del docente.
Il governo di Parigi ha sciolto la Ong islamica BarakaCity la quale, secondo il ministero dell’Interno, nel 2015 aveva ricevuto donazioni da un membro del commando terrorista della strage al Bataclan, Samy Amimour, e nel 2016 da Larossi Abballa, il terrorista che uccise un poliziotto e sua moglie a Magnanville. Il leader di BarakaCity è Driss Yemmou, detto Idriss Sihamedi, un noto salafita molto attivo online con posizioni estremiste. Anche il Collettivo contro l’islamofobia in Francia (Cccif) è nel mirino delle autorità francesi, perché ritenuto troppo accomodante con i radicali. Il collettivo si era unito al predicatore Sefrioui nel chiedere il licenziamento di Samuel Paty.
Contro il «separatismo»
Macron ha lanciato una campagna nazionale contro il “separatismo islamista”, responsabile di voler creare all’interno della società francese una comunità parallela, che rifiuta i principi democratici di libertà e laicità. Alcuni membri della comunità musulmana invece denunciano l’islamofobia e l’isteria collettiva dei media, che portano a colpevolizzare qualsiasi attività islamica nella sfera pubblica. Certamente questa polarizzazione peggiorerà la situazione in Francia, che è uno dei paesi europei più colpiti dal terrorismo negli ultimi anni.
A seguito degli attacchi di Parigi nel 2015, il presidente Hollande aveva proclamato lo stato d’emergenza, che fu prorogato per ben cinque volte. È durato quasi due anni, si è trattato del più lungo stato d’eccezione nella storia della Quinta Repubblica. Nel 2017, il presidente Macron ha voluto sostituire il regime emergenziale con una legge antiterrorismo, la legge numero 1510, che regolamenta i poteri di polizia, prefetti e autorità locali nella prevenzione di attentati.
Nel 2020, nonostante il lockdown di vari mesi, si sono verificati otto attacchi terroristi in Francia. Nel 2019 il paese ha avuto il più alto numero di arresti per terrorismo in Europa (202), mentre l’Italia appena 18. La Francia dispone di due liste, la famosa fiche S, assegnata a chi rappresenta una minaccia alla sicurezza dello Stato inclusa estrema destra e sinistra, e la meno nota Fsprt, per individui segnalati per radicalizzazione terrorista. I radicalizzati in Francia sono oltre ventimila e non esiste un apparato di sicurezza che possa garantire il continuo monitoraggio di ciascuno di loro. Alcuni sindaci e amministratori locali hanno più volte chiesto al ministero dell’Interno di rendere noti chi sono i cittadini radicalizzati, ma per ragioni di privacy e non discriminazione non hanno accesso a questa informazione.
La radicalizzazione in Francia avviene non solo nella comunità di origine araba, ma anche in quella cecena e caucasica, come dimostra l’attentato di Abdoullak Anzorov contro Paty. Il 12 maggio 2018, un altro ceceno, Khamzat Azimov, uccise una persona e ne ferì altre quattro vicino al palazzo dell’Opera di Parigi. Anche lui era nella lista S e in quella FSPRT. La violenza nella comunità cecena è emersa anche in seguito a scontri armati e spedizioni punitive nella città di Digione, avvenuti a giugno scorso.
Dopo Charlie
Dagli attentati jihadisti contro la redazione di Charlie Hebdo e del Bataclan, la Francia ha fatto progressi nella lotta al terrorismo. Inizialmente i servizi di intelligence e la polizia non erano coordinati, spesso non condividevano fra loro informazioni decisive. Sino al paradosso che durante l’attacco al Bataclan le forze speciali della gendarmeria erano pronte a intervenire ma non furono autorizzate perché quella zona era assegnata alla polizia. Oggi c’è molta più collaborazione, ma i grandi numeri di radicalizzati rendono impossibile controllare tutti.
A questa situazione si aggiunge il rischio di centinaia di persone condannate per terrorismo, che stanno terminando di scontare pene di pochi anni e saranno presto in libertà, ma non de-radicalizzate. La Francia, a differenza dell’Italia, si trova le mani legate perché gran parte dei radicali sono cittadini, dunque con il diritto di rimanere e circolare sul suolo nazionale. Uno degli strumenti più utilizzati dal governo di Roma, appunto, è l’espulsione per motivi di sicurezza nazionale, che garantisce la neutralizzazione della minaccia del momento, ma non risolve il problema sul lungo termine. Le decine di sospetti radicali marocchini, algerini, tunisini, ed egiziani, che vengono espulsi e rispediti nei paesi di origine, finiscono in un limbo di cui si sa poco, spesso torturati e detenuti senza prove.
Il rischio italiano
L’Italia ha creduto di essere immune al terrorismo jihadista, ma nel corso degli anni alcuni attacchi sono avvenuti, seppur con lievi conseguenze, primo fra tutti quello del libico Mohamed Game, che nel 2009 si fece esplodere davanti alla caserma Santa Barbara di Milano. L’uccisione di Anis Amri, il terrorista di Berlino, avvenuta a Sesto San Giovanni nel 2016, ci ricorda che il falso mito dell’Italia estranea al fenomeno può essere pericoloso. Benché negli anni sia stato collaudato un buon sistema di coordinamento con il Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo, di cui fanno parte i servizi di Aisi e Aise, oltre che Polizia e Carabinieri, manca ancora la componente della prevenzione.
L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non aver ancora adottato una legge o una strategia di contrasto alla radicalizzazione e all’estremismo. Nella scorsa legislatura ci provarono i deputati Stefano Dambruoso, ex magistrato antiterrorismo, e Andera Manciulli, ma la proposta di legge rimase in un cassetto. Il terrorismo in Italia perciò continua ad essere trattato come un tema episodico, di cui occuparsi solo il giorno dell’attentato, per essere poi dimenticato.
La commissione presieduta da Lorenzo Vidino, che presentò le sue conclusioni al governo Gentiloni, mise in guardia dal rischio di sottovalutare la radicalizzazione delle seconde generazioni, ancora acerbe in Italia rispetto alla Francia o altri paesi, ma che presto si riveleranno le più vulnerabili alla propaganda estremista, per conflitti di identità e la difficile integrazione sociale.
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