- Nelle sale cinematografiche della Repubblica Popolare della Cina Shanghai ha iniziato a sopravanzare Hollywood nella conta degli incassi.
- S’è innescato il circolo causale per cui i produttori di quell’enorme Paese possono “pensare in grande”, investire in proporzione e farsi sotto in ogni angolo del mondo a contendere agli Usa il bottino degli incassi.
- Nel contempo, la logica delle piattaforme a pagamento, a partire da Netflix sta intaccando la prevalenza dell’inglese come lingua base e fattore di vantaggio per il mondo produttivo anglo americano.
L’Economist è attento a soppesare ogni variazione di peso e di influenza dell’Occidente liberale e, non da ultima, la forza del potere narrativo, detto soft power, che consolida il dominio senza uso di bombe dal cielo o di scarponi sul terreno.
Questo tipo di potere è appartenuto negli ultimi cent’anni e per intero all’anglosfera attraverso la produzione Hollywoodiana, lo star system e lo show business.
Ma nulla è eterno e tutto può cambiare, tant’è che proprio l’Economist segnala due radicali mutamenti: l’uno nasce nei cinematografi cinesi, l’altro da Netflix, il cuore americano delle piattaforme a pagamento.
Nei cinema cinesi
Nelle sale cinematografiche della Repubblica Popolare della Cina Shanghai ha iniziato a sopravanzare Hollywood nella conta degli incassi. Un evento enorme, considerando che dal 2007 gli USA, con i fumettoni tutti muscoli ed eroi, coi mutanti e con gli Avengers, spopolavano e risucchiavano il grosso dei ricavi quando quel mercato valeva, in dollari, alcune centinaia di milioni (grosso modo la misura pre-Covid dell’Italia) al punto che fra i 25 titoli più visti ben 14 posizioni erano occupate dai film americano rispetto a 11 cinesi. Oggi il mercato cinese vale attorno ai 9 miliardi perché il numero dei cinematografi è cresciuto a dismisura insieme con l’urbanizzazione del Paese e non c’è produttore al mondo che non sogni di metterci un piedino.
Ma nel frattempo si sono imposti i film cinesi che nella ultima Top 25 piazzano 17 titoli e per di più nelle posizioni di testa, con gli USA in fondo alla classifica. Nuovi equilibri di mercato che a partire dalla Cina possono propagarsi assai al di fuori.
All’origine di questo risultato sta il prolungato protezionismo che dai cinema alle televisioni ha bloccato il dilagare, altrimenti inevitabile (Europa docet) del prodotto americano.
Al riparo di questa Grande Muraglia Doganale l’industria audiovisiva cinese ha iniziato a beneficiare dello sviluppo del Paese, della crescita tumultuosa del ceto medio, degli stili di vita e di consumo culturale indotti dall’urbanizzazione. Il tutto sulla dimensione del miliardo ed oltre di persone, più che sufficiente a far scattare l’”economia di scala” ovvero il fattore chiave nel determinare le gerarchie nazionali nel mercato del film, della fiction seriale, del cartoon, del documentario, della musica pop, del video gioco.
Gli Stati Uniti hanno fondato cento anni di egemonia sul fatto di avere una popolazione numerosa, istruita e con diffusa capacità di spesa, capace di assicurare un inconfrontabile retroterra di clienti nazionali alle più varie imprese produttive, fra cui l’industria del racconto registrato.
Così, contando sugli incassi di quella vastissima platea Hollywood, ed essa sola, ha potuto pianificare titoli dai budget stratosferici se confrontati a quelli medi di un qualsiasi paese della UE o della stessa, anglofona, Inghilterra. Per non dire dei Paesi in minori condizioni di sviluppo.
A partire da questa condizione strutturale i titoli americani si sono diffusi a valanga in tutto il mondo, facendo man bassa della capacità di spesa degli spettatori d’ogni altra nazione.
L’esito è stato di comprimere nella stessa proporzione la base economica delle produzioni nazionali e provocando non lacrime ma applausi, dopo lunghe file ai botteghini o uso di telecomando a beneficio dei vari Miami Vice.
Tutto perché grazie alla stazza del budget di partenza, la qualità della produzione hollywoodiana è un esempio di eccellenza. Mai un Impero culturale ebbe sudditi più consenzienti.
Tutti noi, in Italia e in ogni dove, siamo parte di una semiosfera transnazionale fondata su Topolino, le Giovani Marmotte e la visione di famiglia del cartoon Disney di Natale.
L’avanzata cinese
Ora questo dominio vede crescere in Cina un rivale strutturale perché, anche con redditi pro capite ancora assai inferiori a quelli americani, quella popolazione sterminata fa comunque volare ad altezze americane gli incassi della sala, la pubblicità televisiva, le vendite a mezzo video e streaming.
Così s’è innescato il circolo causale per cui i produttori locali possono pensare in grande, investire in proporzione e farsi sotto in ogni angolo del mondo a contendere agli Usa il bottino degli incassi. E così, resi ancor più forti, ricominciare a creare, vendere, incassare.
Un fenomeno epocale, che potrebbe essere emulato solo dall’Europa se questa trovasse il modo, altro che fisime polacche, di mettere in sinergia continentale il suo enorme potenziale produttivo e di consumo. Si tratta comunque di un cambiamento degli equilibri del soft power che non è in alcun modo contenibile, tanto meno con i sottomarini nucleari inviati a presidiare il fondo degli oceani.
Netflix verso Pechino
Nel contempo, la logica delle piattaforme a pagamento, a partire da Netflix sta intaccando la prevalenza dell’inglese come lingua base e fattore di vantaggio per il mondo produttivo audiovisivo anglo americano.
Si moltiplica infatti la diffusione di film e serie nati fuori dai confini anglofoni, doppiati solo in alcune delle lingue più diffuse, ma più spesso presentati nell’esotico sonoro originale accompagnato da sottotitoli locali.
Ad esempio, Squid Game, il titolo stravisto proprio in questi giorni, non è stato, almeno finora, doppiato in italiano. In Italia giovani e bambini corrono a vederselo, ma lo fanno in compagnia del sonoro coreano.
Era già successo, su misure più contenute e adulte di successo, col Mr Sunshine, anch’esso coreano, della stagione scorsa. Tant’è che supponiamo che l’algoritmo della casa si sia accorto proprio in quell’occasione dell’accoglienza molto positiva ad onta della lingua. A noi del resto pare chiaro che seguire eroi coreani che parlano la lingua di Dante e di Manzoni può risultare perfino surreale e disturbante.
Sta di fatto che fra doppiaggi (pochi) e sottotitoli (moltissimi) arrivano a portata di decoder in ogni angolo del mondo titoli indiani, turchi, polacchi, pakistani, nigeriani e altri d’ogni fattura e provenienza. Tutti capaci di contendere il “tempo d’attenzione” in precedenza riservato all prodotto anglo americano.
Aggiungi, a dare gambe al fenomeno, il probabile calcolo di Netflix, piattaforma mondiale, di avere in tutto il mondo radici produttive e arricchire anche in questo modo i suoi cataloghi ora che potrebbe non avere più a disposizione i titoli di Disney e Warner che hanno archivi enormi di prodotto e sembrano orientati a usarlo su piattaforme proprietarie.
Assistiamo dunque e contemporaneamente sia a un successo del Capitalismo politico“ cinese che pianificando, sovvenzionando e proteggendo è riuscito a fare emergere una potente industria di narrazione audiovisiva. Ma anche alla riprova che il “Capitalismo liberale” è capace di evolvere con soluzioni nuove rimescolando i sistemi di dominio del mercato. Dal punto di vista di John Stuart Mill, il santo liberale che incombe sull’Economist, la partita si chiude, forse, pari e patta.
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