- Quando si parla di crisi climatica, ci troviamo sempre stretti tra il senso dell’urgenza (“basta con i bla bla bla”, dice Greta) e il senso di impotenza. Questa è l’età della frustrazione, ma aspettare che dall’alto arrivino tutte le risposte è l’approccio sbagliato
- La transizione ecologica sarà il prodotto dell’aggregazione di preferenze diffuse che contrastano le resistenze concentrate al cambiamento, nella soluzione del classico paradosso dell’azione collettiva.
- Non dipende solo da noi, ma in gran parte dipende da noi.
Soltanto in Italia vertici come quello del G20 vengono raccontati come momenti di svolta nella storia mondiale, di solito grazie a un fondamentale ruolo di chi è al governo proprio in Italia. Questo provincialismo alimentato dalla comunicazione ufficiale di palazzo Chigi (con Draghi come con tutti i suoi predecessori) rischia di avere seri effetti collaterali: si alimenta l’aspettativa nel pubblico di un fenomenale cambiamento alle viste, si celebra il trionfo e poi nulla cambia. E la delusione è l’unica reazione sensata nel medio periodo, quando si abbassa il rumore della propaganda.
In particolare quando si parla di crisi climatica, ci troviamo sempre stretti tra il senso dell’urgenza (“basta con i bla bla bla”, dice Greta) e il senso di impotenza. Questa è l’età della frustrazione, ma aspettare che dall’alto arrivino tutte le risposte è l’approccio sbagliato. Mezzo secolo fa l’economista di Chicago George Stigler ha argomentato che la regolazione, che si tratti di standard di sicurezza o ambientali, di solito non è fatta per ridurre il potere delle lobby ma per consolidarlo.
Guardate l’Italia: chi ha più influenza sulla transizione ecologica, l’Eni o i Fridays for future? Tutto ciò che passa per l’intermediazione politica è frutto di un compromesso tra chi ha interessi vitali, concentrati e urgenti da difendere (i gruppi petroliferi, i produttori di auto a benzina, gli azionisti e i dipendenti di imprese energivore o inquinanti) e chi condivide una sensibilità di lungo periodo per l’ambiente che spinge a qualche protesta di piazza, ma è troppo frammentata nello spazio e nel tempo tra generazioni per bilanciare gli interessi particolari concentrati.
Non è solo illusorio pretendere che il cambiamento passi tutto dalla politica, è pericoloso. Ma non siamo impotenti: sui mercati finanziari, le preferenze degli investitori sono più incisive dei regolatori. A maggio l’hedge fund Engine No. 1 ha imposto due consiglieri di amministrazione nel board della Exxon, contro il management, per forzare la transizione ecologica dell’impresa simbolo del petrolio inquinante.
Ora l’investitore attivista Daniel Loeb ha attaccato Shell per costringerla a spezzare in due le sue attività: una bad company inquinante da rottamare e una verde da far crescere, senza che il vecchio business assorba le risorse necessarie a quello nuovo.
Sono scelte che indicano due cose: che ci sono risparmiatori, dietro quei fondi, interessati a usare il capitale come leva di cambiamento. Ma anche che il futuro sostenibile è ormai sicuro e quasi inevitabile, dunque ha senso scommettere sulla velocità della transizione, invece che interrogarsi ancora sulla sua possibilità.
E questo dipende dal fatto che le preferenze delle persone stanno cambiando più in fretta di quelle dei governi, condizionati da troppi interessi organizzati.
Che si tratti di leggere un giornale, di scelte di acquisto o di investimento, la transizione ecologica sarà il prodotto dell’aggregazione di preferenze diffuse che contrastano le resistenze concentrate al cambiamento, nella soluzione del classico paradosso dell’azione collettiva.
Non dipende solo da noi, ma in gran parte dipende da noi.
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