- L’audio di Fedez registrato dallo psicologo non ci racconta nulla di nuovo, non è parte di un racconto articolato che spiega il percorso intrapreso con il terapeuta, la gestione della paura e l’idea della morte che si affaccia per la prima volta, con il lavoro necessario di elaborazione.
- E’ solo un buco della serratura offerto a milioni di utenti (alcuni dei quali stanno attraversando la malattia). Questo Fedez lo sa molto bene, altrimenti non avrebbe premesso che siamo liberi di accusarlo di narcisismo.
- Di sicuro, non l’ha fatto per normalizzare la psicoterapia, perché non è questo il senso della psicoterapia. Come dicono alcuni psicologi intervenuti sul tema, il setting terapeutico va tutelato.
Ieri ho scritto una storia di poche righe su Instagram per esprimere il mio disagio a proposito della scelta di Fedez di condividere un audio tratto da una sua seduta di psicoterapia. In quell’audio molto breve e drammatico lo si sentiva piangere dicendo: «Non voglio morire, non voglio morire, ho paura che i miei figli non si ricorderanno neanche di me!».
Il tutto era accompagnato da quella che sembrava una giustificazione preventiva: «Prendete queste mie considerazioni come meglio credete. Voglia di condividere, manie di protagonismo, narcisismo fine a se stesso. Non me ne frega molto. Vorrei solo che chi sta affrontando una situazione simile sappia che è tutto normale».
Il congiuntivo mi è parsa la cosa meno sbagliata di tutta questa vicenda e l’ho scritto in maniera sintetica, convinta che a parte i consueti insulti dei fan della coppia (se ne critichi uno, ti inviteranno a non toccare neanche l’altro, i loro fan considerano Fedez e Chiara la creatura mitologica Ortro, il cane a due teste), il mio commento sarebbe morto lì, senza conseguenze.
E invece, quel mio disagio che ritenevo personale e poco condiviso ha intercettato un umore diffuso, che vale la pena decodificare perché i temi scomodati sono molti e delicati. Intanto, partiamo dal tema psicoterapia.
“Normalizzare” tutto?
Fedez e Chiara Ferragni, negli ultimi due anni, hanno dedicato molto spazio al tema della terapia psicologica e del disagio derivante da traumi e stress, buttando tutto in un enorme calderone informe in cui si sono mescolati la pratica emdr di Chiara per superare il trauma per la perdita di una persona cara (pratica controversa, utilizzata anche da Claudio Foti e citata nelle carte di Bibbiano), i braccialetti anti-stress di Fedez a Sanremo (quelli con le vibrazioni che contribuirebbero a depolarizzare le cariche elettriche legate allo stress, arginando così l’ansia, ovviamente niente di scientifico), la terapia di coppia in mondovisione nella loro serie per Amazon e ora anche stralci di registrazioni in cui si parla di paura della morte.
Insomma, un mix di anti-scienza e di scienza trattati sempre con uno scopo dichiarato: quello di condividere, normalizzare, lanciare messaggi, far sentire meno soli blabla. E in effetti, anche nel testo che accompagnava l’audio, Fedez diceva «sappiate che è tutto normale».
Da tempo assisto con sconcerto all’abuso del verbo normalizzare per nobilitare qualunque forma di esibizionismo o incapacità patologica di conservare una sfera privata, cose che, a dirla tutta, non avrebbero alcun bisogno di nobilitazioni.
In questo caso specifico trovo che non ci sia nulla di normalizzante né rispetto alla malattia né soprattutto alla psicoterapia.
Della malattia già avevamo saputo molto, visto che non erano mancate foto di ricovero, degenza, ferite da operazione, video-selfie con pianti, Tiktok dalla camera di ospedale con sponsorizzazioni annesse della moglie e tutto quello a cui abbiamo assistito con empatia o disagio a seconda dei momenti.
Il buco della seratura
Quell’audio non ci racconta nulla di nuovo, non è parte di un racconto articolato che spiega il percorso intrapreso con il terapeuta, la gestione della paura e l’idea della morte che si affaccia per la prima volta, con il lavoro necessario di elaborazione.
E’ solo un buco della serratura offerto a milioni di utenti (alcuni dei quali stanno attraversando la malattia). Questo Fedez lo sa molto bene, altrimenti non avrebbe premesso che siamo liberi di accusarlo di narcisismo.
Sa bene che per arrivare fino alla pubblicazione dell’audio c’è una lunga premeditazione, dalla scelta di registrare, a quella di chiedere allo psicoterapeuta di poter schiaffare tutto sul web, al tagliare il file e caricarlo.
Quell’audio è un contenuto. Tutta la sua vita, del resto, lo è. Non c’era bisogno di ammantare di filantropia il gesto, di scomodare il tema della normalizzazione, di raccontarci che la condivisone è stata pensata per gli altri. Per i malati. Fedez ha caricato quel video per se stesso.
Tutto quello che condividiamo sui social fa bene prima di tutto a noi e nelle accezioni più diverse, nobili e meno nobili, talvolta perfino coesistenti.
Gli andava di condividerlo, aveva bisogno di un abbraccio collettivo, aveva bisogno di engagement, aveva bisogno di partecipazione, aveva bisogno di titoli sulla stampa, forse è vero qualcosa, forse è vero tutto.
Di sicuro, non l’ha fatto per normalizzare la psicoterapia, perché non è questo il senso della psicoterapia. Come dicono alcuni psicologi intervenuti sul tema, il setting terapeutico va tutelato.
Registrare il trauma
«Mettere quei momenti intensi di lavoro sotto l’occhio di chiunque significa non aver capito il senso e la cifra di un percorso di terapia», ha sottolineato la psicologa Barbara Fabbroni. «Qual è lo scopo di registrare un trauma in atto? Ai fini della sua elaborazione, registrare la disperazione mentre accade, a che pro?», si domanda la psicologa Ameya Canovi.
Forse la risposta è in quel «Ho paura di essere dimenticato dai miei figli», detto proprio da Fedez. Col massimo rispetto che si deve a chi si misura con la paura di morire, va detto che Fedez convive con la paura di essere dimenticato in maniera più diffusa e ossessiva di quanto pensi, ben oltre la parentesi (speriamo chiusa per sempre) della malattia. E se quell’audio era la paura di essere dimenticato dai bambini, la pubblicazione di quell’audio e di tanta parte intima di quel che lo riguarda fa parte della stessa paura. Di morire-metaforicamente- sui media.
In tutto questo non ci sarebbe nulla di male, dicevamo, se non si deviasse dal senso della terapia e se non si accompagnasse il tutto al messaggio ipocrita che lo si fa per aiutare gli altri. Polemiche simili avevano accompagnato le foto di Chiara Ferragni all’ospedale, durante il ricovero della figlia nata da poco.
Di sicuro, lo scatto della manina della neonata con il tubicino attaccato (poi rimossa) rientra nello stesso filone ambiguo del dolore che si mescola al marketing, anche perché anche in quel caso le storie del ricovero della neonata si alternavano a storie di adv, in un corto circuito straniante.
Così come era straniante quel video su Tiktok in cui sempre Chiara Ferragni, truccata e ingioiellata, con musica pop in sottofondo, riprendeva se stessa con Fedez nel letto d’ospedale, sullo sfondo, e la scritta: «In ospedale con mio marito mentre lui combatte contro un tumore al pancreas!».
I sostenitori
Naturalmente non manca chi ritiene invece utile questa modalità di condivisione del percorso terapeutico, affermando come lo psichiatra Federico Tonioni che «l’angoscia della morte ce l’abbiamo tutti e lui ha deciso di sublimarla così» e «un personaggio pubblico che condivide le proprie emozioni, chi fa sentire il proprio pianto stimola sicuramente tante persone in difficoltà a chiedere aiuto».
Altri sostengono che lo stigma sociale della malattia si stia sgretolando grazie ai personaggi come Fedez, che condividono la malattia. Altri ancora che la condivisione del privato, senza recinti imposti, sia un’evoluzione. E può essere tutto vero o forse no, ma non è questo il tema.
Il tema è la psicoterapia che diventa palcoscenico, che viene utilizzata nelle situazioni più disparate per esigenza e per fiction senza che se ne comprendano più i confini, che viene svilita nel suo scopo primario e scientifico, quello dello spazio intimo tra un medico e un paziente, della genuinità che quello spazio dovrebbe conservare e che non può essere tutelata dall’idea intrinseca che tutto quello che accade in quello spazio potrebbe diventare pubblico.
Ma, soprattutto, che viene spettacolarizzata e inserita nel grande romanzo della vita di Fedez in cui la malattia è un tema che crea partecipazione collettiva (mentre la guerra, per esempio, è divisiva e scivolosa per collaborazioni attuali e future e se ne parla il meno possibile), accompagnata però dal messaggio che tutto nobilita e tutto assolve: «lo sto facendo per voi»
No, lo stai facendo per te. Per il tuo brand o per il tuo benessere psicofisico o per una tua tendenza compulsiva a esibire o perché ti andava e basta.
Anni di psicoterapia avrebbero insegnare anche questo: a non sentirsi in dovere di conferire una dignità morale a tutto.
Questo non è normalizzare. É bluffare.
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