Nel 2016 la vittoria di Donald Trump fu accolta dal sistema come un'anomalia, l'emersione di un inatteso sentimento di rabbia, come inaspettato era stato, pochi mesi prima, il successo dei Leave al referendum inglese sulla Brexit.

Dopo la prima elezione di Trump Wall Street crollò, il nuovo inquilino della Casa Bianca fu accolto come un intruso, una meteora. La riscossa di Joe Biden, nel 2020, confermò questa drammatica illusione.

Il ritorno di Trump nel 2024, con la maggioranza dei voti popolari, oltre 74 milioni, mai raggiunti prima, dimostra invece che il populismo non è una parentesi della storia, come pensava Benedetto Croce del fascismo (sbagliando).

Ora il populismo si fa sistema, benedetto dai mercati e dai magnati, da Musk a Bezos. Il capitalismo non lo teme più, anzi, lo riconosce, lo abbraccia. E di fronte al populismo che si fa sistema, in America e in Europa, e che punta a durare per decenni non basta ripetere all'infinito le tesi più conformiste sulla lontananza della sinistra dal popolo (abbiamo capito) o inseguire la scorciatoia delle alleanze al centro.

Perché, per prima cosa, il populismo che si fa sistema ha divorato il centro, sociale e politico, come ha fatto Trump con il vecchio partito repubblicano. Il senatore della Florida Marco Rubio che ha concluso l'ultimo comizio di Trump in Pennsylvania parlando in spagnolo, come ha mostrato il reportage americano di Diego Bianchi, è lo stesso «piccolo Marco» che nel 2016 Trump dileggiava e umiliava alle primarie. Oggi il piccolo Marco potrebbe diventare segretario di Stato, ministro degli Esteri, il Tajani americano, con un destino politico simile all'originale italiano: il centrista sottomesso alla leadership di destra.

Ovunque i partiti centristi e moderati pensano di romanizzare i barbari, di guidare il gioco, ma finiscono al contrario egemonizzati dalle destre. È l'equivoco di Ursula von der Leyen, di Emmanuel Macron in Francia, dei popolari in Germania.

Nell'ultimo decennio il vecchio centro ha rifiutato di combattere la battaglia con le destre, ha pensato di scendere a patti, ha perso. Ma lo sfondamento della destra al centro è prima di tutto lo specchio di una trasformazione sociale del ceto medio. È evidente nel voto americano nel voto cattolico o tra gli indipendenti.

Leonardo Bianchi ha raccontato come più della metà dei maschi tra i 18 e i 29 anni ha votato per Trump, con uno spostamento di 30 punti perché i ragazzi sono sfiduciati verso i politici e i media tradizionali e permeati di bro culture, una cultura ipermaschilista, reazionaria, i brothers che reagiscono all'ascesa delle donne.

È un'egemonia conquistata con un'operazione culturale durata tre decenni, tra fondazioni, centri studi, e poi il braccio armato dei social, che alimenta il rancore verso tutto ciò che sa di establishment, dai politici di professione (identificati in blocco con la sinistra, ma anche con il vecchio centro), ai banchieri, ai giornalisti, ai magistrati, agli intellettuali, quelli che Meloni chiama «sinistra al caviale». A poco vale ripetere che queste categorie oggi sono schierate tutte o quasi dalla parte di Trump negli Usa o con la destra in Italia, che - caviale o no - al buffet del potere ormai ha scavalcato tutti. Anche il patto tra l'establishment finanziario e le sinistre degli anni Novanta-Duemila è finito da un pezzo. Non vedremo più banchieri in fila per le primarie del centrosinistra, lasciando alle destre le praterie dello scontento.

Nei prossimi mesi Giorgia Meloni potrebbe essere tentata da un nuove elezioni anticipate, per approfittare del vento favorevole, mentre la Germania e forse la Francia tornano al voto, e conquistare la maggioranza del nuovo Parlamento che sarà chiamato a votare per il nuovo presidente della Repubblica e a riscrivere la Costituzione.

Anche Meloni da anomalia punta a farsi sistema, come Trump. Per contrastarla, serve un lungo lavoro di ritorno nella società, nella cultura, tra i mezzi di comunicazione antichi e nuovi. In questo lavoro appena iniziato, di fronte a un passaggio epocale come questo, l'opposizione fondata sul Pd di Elly Schlein è più che mai chiamata a diventare la casa comune di tutti i democratici, a parlare con tutte le pieghe della società, anche le più distanti. Nel farlo, non potrà più contare su alleati di comodo, intellettuali che compilano pagine bianche (nel senso opposto di quella coraggiosa di Christian Raimo pubblicata ieri su “Domani”), attrici di copertina che hanno abbandonato la sinistra non essendo più la sinistra di moda. Ma forse questa è l'unica buona notizia.

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