- Da panico nasce panico: la corsa agli sportelli a ritirare soldi e azioni è uno spettacolo ormai familiare, non più relegato solo nei libri di storia; la storia del 2008 è vita vissuta, e di recente.
- Ma mentre il panico degli investitori è immediato, ferino, quello che si insinua nella psicologia delle masse prende più tempo a materializzarsi.
- Finché si può, si continua a ballare al ritmo dell’orchestra del Titanic, poi, quando ci si rende conto che molti dei privilegi che avevamo accumulato negli anni si stanno dissolvendo, il panico dilaga.
Un generale americano a quattro stelle ha affermato che la guerra tra Stati Uniti e Cina scoppierà nel 2025. È noto che l’allarmismo è il modo migliore per ricevere attenzioni, commesse, soldi.
Non che ce ne sia bisogno: la Cina annuncia un aumento delle sue spese militari per, dice, preservare l’ordine mondiale sotto attacco americano; gli americani convocano britannici e australiani in un vertice in cui girano somme astronomiche per nuove commesse belliche; i francesi aumentano di un terzo il budget per l’esercito in vista delle «considerevoli minacce dei prossimi anni» (Macron dixit); la Polonia si dota di un arsenale così sproporzionato, in relazione alle sue dimensioni, da entrare in competizione con l’Arabia Saudita e Israele; e anche la Germania e il Giappone, fino ad oggi relegati nell’angolo dei nani militari, hanno perso le residue inibizioni e si sono lanciati in una corsa in cui, in epoche precedenti, avevano dimostrato di eccellere.
Nessuno può dire, seriamente, se il generale americano a cinque stelle sia destinato a diventare, in futuro, un profeta.
Nessuno può neppure dire, seriamente, se la caduta della Silicon Valley Bank possa avere un effetto di trascinamento quale lo ebbe la caduta di Lehman Brothers nel 2008.
Le reazioni dei politici del mondo intero, proprio perché affrettatamente rassicuranti, suggeriscono che potrebbe averlo.
Se così fosse, la combinazione tra un’accresciuta ansia sociale e le guerre in corso o preannunciate potrebbe rivelarsi, letteralmente, esplosiva.
Da panico nasce panico: la corsa agli sportelli a ritirare soldi e azioni è uno spettacolo ormai familiare, non più relegato solo nei libri di storia; la storia del 2008 è vita vissuta, e di recente.
Ma mentre il panico degli investitori è immediato, ferino, quello che si insinua nella psicologia delle masse prende più tempo a materializzarsi.
Per un po’, finché si può, si continua a ballare al ritmo dell’orchestra del Titanic, poi, quando ci si rende conto che molti dei privilegi che avevamo accumulato negli anni si stanno dissolvendo, il panico dilaga.
Dopo il 2008, ci sono voluti anni perché l’ansia sociale prendesse la forma del rifiuto dei profughi di guerra, aggiungendosi all’astio contro gli immigrati, nel 2015, poi la forma del Brexit, poi quella delle elezioni americane del 2016, o di quelle italiane del 2018, o dei «gilets jaunes» in Francia, portando anche quel paese sul ciglio del baratro elettorale.
Gli elettori di tutto il mondo, compresi quelli russi, turchi, ungheresi e polacchi, e, ultimi arrivati, israeliani, hanno dato la spinta che mancava, al mondo, per trovarsi sempre più di fronte alle «considerevoli minacce dei prossimi anni».
E agli elettori di tutto il mondo, un’altra crisi economica globale, se mai si concretizzasse, potrebbe dare, a sua volta, un’altra spinta. Come in una reazione a catena.
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