Il ricordo di un uomo di confine che non voleva confini. E chiedeva l'“acqua democratica” contro quella dei privati e dei mafiosi
Perché ricordare e riscoprire oggi Danilo Dolci a cento anni dalla sua nascita? Perché era un pacifista e oggi c'è bisogno di pace, perché era un sognatore e oggi c'è bisogno di sogni, perché era un disubbidiente e oggi ci sono troppi ubbidienti, molti di più di quando lui - ormai settanta e passa anni fa - aveva scelto di vivere fra i pescatori e i braccianti di Trappeto, un piccolo villaggio siciliano dove i bambini morivano di fame.
Così era iniziata la straordinaria avventura di un utopista di mestiere, che era anche sociologo, architetto, pedagogo, filosofo, antropologo, musicista e agitatore sociale, scrittore, giornalista, poeta. Così erano cominciati gli "scioperi alla rovescia“ nelle campagne della provincia palermitana e così nell'etere si diffuse da Partinico la rivolta della prima radio libera italiana, una trasmissione clandestina che il 25 marzo 1970 durò ventisei ore, ventisei ore di libertà fino a quando arrivarono i carabinieri.
Arrivavano sempre i carabinieri per Danilo Dolci, nato a Sesana quando non era ancora Slovenia ma provincia di Trieste, un profeta, un Gandhi italiano naturalizzato siciliano che prima di ogni altro e più di ogni altro si era scagliato contro gli intoccabili.
Perché ricordare e riscoprire oggi Danilo Dolci? Perché era uomo di confine che non voleva confini. E però quanta sofferenza e quante tribolazioni per quel giovane uomo venuto da lontano che si era immerso in un mondo dove politica e crimine avevano lo stesso volto, dove regnava un silenzio di morte. Dicevano che “aveva scelto la Sicilia per diffamarla, per scrivere libri speculando sulla miseria”. Dicevano che “digiunava per farsi pubblicità”, dicevano anche che “era pagato per la sua propaganda e che voleva diventare deputato”.
Uno dei suoi più grandi detrattori era il cardinale Ernesto Ruffini, uno che nella limacciosa Palermo del secondo dopoguerra era molto introdotto. Per Sua Eminenza i mali della Sicilia erano tre: la mafia, il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e per ultimo, ma non ultimo nella scala delle piaghe, Danilo Dolci.
Le convinzioni dell'alto prelato contribuirono, e non poco, a dilatare in tutta Italia la meraviglia e l'ammirazione per quel triestino sceso fin laggiù per fare la sua rivoluzione pacifica. Stare dalla parte di chi non aveva niente gli ha procurato tanti nemici potenti (la chiesa per prima), la sua geniale generosità gli ha spalancato pure i cancelli dell' Ucciardone. Articolo 341 del codice penale: resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale.
Articolo 415: istigazione a disobbedire alle leggi. Articolo 633: invasione di terreni. Una mattina, quella del 2 febbraio 1956, Danilo Dolci e quasi mille fra donne e uomini e bambini si erano incamminati lungo una strada accidentata e abbandonata per rimetterla in sesto. Era lo “sciopero alla rovescia”.
In una cella passò quasi due mesi, in compagnia di due luogotenenti del bandito Salvatore Giuliano. Poi il giudice istruttore Marcataio lo rinviò a giudizio: «Nonostante le precedenti diffide, il Dolci e gli altri imputati hanno persistito nella loro attività criminose organizzando l'arbitraria invasione di una trazzera demaniale...tale condotta e le condizioni di vita individuale e sociale del Dolci sono manifesti indici di una spiccata capacità a delinquere».
Il processo fu il suo palcoscenico. Sfilò in aula come teste a difesa Carlo Levi. E poi Elio Vittorini, che al Tribunale disse: «Sono siciliano e so che questa regione è una specie di India, vi è del fatalismo e vi sono delle caste, uomini come Dolci ce ne vorrebbero molti in Sicilia». Le arringhe furono affidate a Piero Calamandrei ma alla fine ci fu sentenza di condanna: 50 giorni di reclusione.
Gli atti del procedimento furono raccolti in un libro dall'Einaudi. Perché ricordare e riscoprire oggi Danilo Dolci a cento anni dalla sua nascita? Perché voleva l'“acqua democratica” contro quella dei privati e dei mafiosi. L'acqua, castigo eterno per la Sicilia.
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