- Raramente tante celebrità del mondo dello spettacolo si sono pronunciate a favore di una singola causa, come accade oggi con il ddl contro l’odio omofobico e transfobico, misogino e abilista.
- Di fronte alla crescente popolarità del provvedimento, colpisce che una parte dell’opinione pubblica di centrosinistra e femminista si allinei all’opposizione nel denunciare il testo come divisivo.
- Eppure la proposta di legge protegge tutte le persone dai rischi di discriminazione e violenza legati a caratteristiche che sono spesso motivi d’odio. E la mobilitazione degli artisti dice che la società è pronta, che il tempo è adesso.
«Questa legge dà più diritti a chi non ne ha, easy»: semplice, come le parole di Fedez. Raramente tante celebrità del mondo dello spettacolo si sono pronunciate a favore di una singola causa come per il ddl Zan. Tra Instagram e carta stampata, Twitter e tv, gli artisti supportano la legge sui crimini d’odio omofobico e transfobico, contro donne e disabili: un passo non più rimandabile in un «paese civile».
Di fronte alla crescente popolarità del provvedimento, colpisce che una parte dell’opinione pubblica di centrosinistra e femminista si allinei all’opposizione nel denunciare il testo, già approvato alla Camera, come divisivo.
Il nodo critico è quello dell’«identità di genere» che, è scritto nel ddl, può essere «non corrispondente al sesso», come di fatto avviene nel caso delle persone trans. Secondo l’accusa, questo porterebbe a cancellare la differenza sessuale tra donne e uomini.
Eppure, il testo menziona, tra i motivi di discriminazione e violenza, anche quelli fondati sul sesso biologico, oltre che sul genere (inteso come insieme delle aspettative sociali legate al sesso), sull’orientamento sessuale, e sulla disabilità. Dunque in che senso il sesso viene cancellato?
Di contro, proprio l’introduzione della parola «sesso», frutto del compromesso raggiunto nel primo passaggio parlamentare, è criticata perché ridurrebbe le donne a una minoranza tra le altre.
La proposta di legge Zan, però, non tutela minoranze, ma protegge tutte le persone dai rischi di discriminazione e violenza legati ad alcune caratteristiche che sono più spesso motivi d’odio, secondo le statistiche.
Allora, se è vero che il movimento femminista, nella sua grande pluralità di posizioni, è diviso sul tema, il problema non risiede tanto nel carattere divisivo del testo, quando nell’interpretazione delle sue intenzioni.
Il riferimento all’identità di genere, già peraltro presente nel nostro ordinamento, è considerato pericoloso da chi immagina che spalanchi la porta a una concezione fluida del genere, slegata dai corpi.
Tuttavia, non c’è nulla nel disegno di legge l ora in discussione al Senato che modifichi le rigide procedure in vigore per la “transizione” da uomo a donna o viceversa.
Le domande di riconoscimento delle identità non binarie e fluide pongono certamente sfide importanti alla politica e al diritto. E il conflitto interno al femminismo non è destinato a sparire, anzi sarà acuito dal protagonismo di nuove generazioni di attiviste inclusive verso le istanze Lgbt. Ma tutto questo ha ben poco a che fare con questa legge, che persegue il fine di proteggere le vulnerabilità.
I diritti, ci ha insegnato Norberto Bobbio, hanno sempre un’origine sociale, sono il risultato dei mutamenti sociali, che generano aspirazioni e domande.
Storicamente, nuovi diritti nascono attraverso il passaggio dalla considerazione dell’essere umano «generico» all’essere umano nelle sue specificazioni: di sesso, di condizioni fisiche, d’età. Oggi, anche di orientamento sessuale e di genere. La mobilitazione degli artisti dice che la società è pronta, che il tempo è adesso.
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