- La legittimità di una normativa a tutela di persone colpite da violenza o discriminazione in quanto appartenenti a un genere, oppure a causa della propria espressione o disabilità, è stata riconosciuta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
- Questioni di legittimità costituzionale della legge Mancino, che il ddl Zan estende ad altri casi, sono state dichiarate infondate: la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi oltre il limite segnato da altri princìpi costituzionali fondamentali.
- Anche sui concetti di “pericolo concreto” e “identità di genere”, che per alcuni sono troppo vaghi al fine di delimitare le condotte sanzionate, esiste una giurisprudenza consolidata.
Nella Giornata internazionale contro la omo-lesbo-bi-transfobia, il presidente della Repubblica ha ribadito «il rifiuto assoluto di ogni forma di discriminazione e di intolleranza». Nei giorni prima, il presidente della Corte costituzionale aveva affermato che «una qualche normativa, come c’è in quasi tutti i paesi del mondo, è opportuna». Il disegno di legge Zan (ddl Zan) continua a essere criticato da chi reputa che esso ponga problemi di diritto. Ma molti di tali problemi sono già stati affrontati dalla giurisprudenza negli anni scorsi.
Perché una tutela specifica
A differenza di altri paesi europei, l’Italia non ha una normativa specifica contro violenza o discriminazioni motivate dall’appartenenza a un genere, oppure a causa della identità o espressione di genere o della disabilità. Per contrastare questi fenomeni, secondo qualcuno basterebbero le previsioni vigenti.
A ciò può replicarsi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, ad esempio, che «la discriminazione basata sull’orientamento sessuale è tanto grave quanto la discriminazione basata sulla razza, l’origine o il colore» implicitamente riconoscendo la legittimità del ricorso a una particolare tutela penale.
La Corte ha pure condannato stati che non avevano predisposto idonee e specifiche misure di contrasto ad atti di odio, che non possono essere trattati su un piano di parità con i reati aventi motivazioni diverse.
Limiti alla libertà di espressione
Una delle critiche al ddl Zan è che sancirebbe sanzioni per “reati di opinione”, in quanto una norma della proposta fa salva la libertà di espressione purché essa non si traduca in condotte «idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti» (art. 4). Secondo i critici, la libertà di espressione sarebbe assoluta e intangibile.
Ciò non risponde al vero. La Consulta ha più volte affermato che tale libertà incontra limiti nella tutela di valori di pari rango, dalla dignità umana all’identità personale, dalla reputazione alla libertà personale, inclusa quella morale e sessuale. La Costituzione non prevede diritti “tiranni”. E se pure la norma citata non ci fosse, il giudice potrebbe comunque essere chiamato a valutare se una certa espressione lede in concreto diritti fondamentali.
Chi reputa che il ddl Zan, limitando la libertà di opinione, sia incostituzionale, dovrebbe sapere che la giurisprudenza ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale delle norme della legge Mancino: la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi oltre il limite segnato da altri principi costituzionali fondamentali, e la valutazione va fatta con riguardo al caso concreto.
Secondo qualcuno, se il ddl Zan fosse approvato, impedirebbe di manifestare a favore o contro normative attinenti a temi che ne sono oggetto. Anche questo non è vero. Come affermato dalla Consulta circa ipotesi di istigazione, rientra nella libera espressione di idee «la critica della legislazione e della giurisprudenza» così come l’attività «diretta a promuovere l'abrogazione di qualsiasi norma». È punito solo ciò che «rivesta carattere di effettiva pericolosità per l'esistenza di beni costituzionalmente protetti e integri comportamento concretamente idoneo a promuovere la commissione di delitti».
Pericolo concreto
Alcune critiche al ddl Zan riguardano l’espressione «pericolo concreto» (del compimento di atti violenti o discriminatori) che determina la rilevanza penale di alcune espressioni di idee. Ma anche su questo concetto la giurisprudenza è chiara. Non basta «qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto» o «la mera manifestazione di ostile disprezzo nei confronti di un determinato gruppo» – afferma la Cassazione – poiché il giudice deve verificare il «contenuto fattivo di istigazione ad una condotta».
E ciò si verifica quando si spinge qualcuno a commettere atti violenti o discriminatori, a causa di una certa «qualità personale» del soggetto preso di mira, non solo in astratto, ma pure in concreto, in relazione al contesto in cui si colloca la singola condotta. Il giudice deve in ogni caso «assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione».
Parimenti, riguardo all’istigazione, la Consulta ha escluso profili di incostituzionalità per la libertà di manifestazione del pensiero, statuendo che non è reato «la manifestazione di pensiero pura e semplice ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti».
Identità di genere
Un’altra delle critiche al ddl Zan riguarda il concetto di identità di genere – la percezione che si ha del proprio genere anche se non corrispondente al proprio sesso biologico o anagrafico – che sarebbe troppo vago. Premesso che tale espressione è già contenuta in atti normativi nazionali, oltre che nella Direttiva in tema di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato nonché nella cosiddetta Convenzione di Istanbul, sin dal 1985 la Consulta ha parlato di un «concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato», in base a cui acquisiscono rilievo non solo gli organi genitali, ma anche l’insieme di fattori psicologici e sociali che concorrono a determinare una «concezione del sesso come dato complesso della personalità».
Nel 2015 la Corte, respingendo l’interpretazione secondo cui, per la sentenza di rettificazione di sesso (legge n. 164/1982), servirebbero trattamenti chirurgici riguardanti caratteri sessuali primari, ha parlato di «aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere», dando riconoscimento a quest’ultima come espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e strumento per la realizzazione del diritto alla salute psicofisica. Il diritto all’identità di genere - quale «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» - è stato ribadito dalla Consulta nel 2017, qualificandolo come «aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto».
Il concetto di “identità di genere” presente nel ddl Zan non è quindi nuovo, ma risponde all’interpretazione che ne ha dato la Corte Costituzionale. Esso si distingue da quello di “genere”, che attribuisce importanza all’autodeterminazione individuale a dispetto degli stereotipi.
Ed entrambi i concetti coesistono con quello di “sesso”, che invece attiene esclusivamente alla dimensione biologica/anagrafica dell’individuo. L’ampio ombrello protettivo del ddl Zan contro violenza e discriminazione tutela ognuna di queste dimensioni, senza annullarne nessuna. I concetti acquisiti nella giurisprudenza, dei quali si è dato conto, possono aiutare a risolvere quelli che per qualcuno sono problemi della legge e, quindi, a superare attuali resistenze.
© Riproduzione riservata