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La ripresa dei lavori sulla proposta di legge Zan ha riacceso il dibattito sui suoi contenuti. Tra le obiezioni, vi è quella relativa all’inutilità dell’intervento.
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A tutelare donne, persone Lgbt e persone con disabilità da discorsi e crimini d’odio basterebbero i reati che già esistono; né vi sarebbe spazio per politiche di prevenzione, operanti sul piano sociale e culturale.
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È davvero così? Ovvio che le azioni violente siano già colpite da norme comuni. Il punto, però, non è questo. Si tratta di prevenire e contrastare condotte che non colpiscono la persona per quel che fa, ma per quel che è.
La ripresa dei lavori sulla proposta di legge Zan ha riacceso il dibattito sui suoi contenuti. Tra le obiezioni, vi è quella relativa all’inutilità dell’intervento. A tutelare donne, persone Lgbt e persone con disabilità da discorsi e crimini d’odio basterebbero i reati che già esistono; né vi sarebbe spazio per politiche di prevenzione, operanti sul piano sociale e culturale. Queste ultime, anzi, esprimerebbero un’inopportuna assunzione di compiti pedagogici da parte della legge.
È davvero così? Ovvio che le azioni violente siano già colpite da norme comuni. Il punto, però, non è questo. Si tratta di prevenire e contrastare condotte che non colpiscono la persona per quel che fa, ma per quel che è: per una condizione personale che è oggetto di odio in quanto percepita come differente, o peggio ancora difforme da un modello ritenuto dominante. Reati d’odio, appunto, specificamente qualificati sotto il profilo criminologico perché minano gli equilibri della convivenza; da nominare e contrastare nel rispetto del pluralismo e del libero confronto democratico, che però non può tollerare opinioni che istighino alla discriminazione e alla violenza.
E qui sta il punto di equilibrio, puntualmente enunciato all’articolo 4, che riprende una formula – quella della concreta idoneità delle opinioni a determinare il pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti – consolidata nella giurisprudenza sulla legge Mancino. La questione di fondo riguarda la dignità delle persone (e non, si badi, di “minoranze”); dunque, il riconoscimento che, accanto al sesso, esistono caratteristiche personali ricche di valore per l’individuo e che, come tali, meritano protezione di fronte all’odio. Ciò vale anche per l’orientamento sessuale e l’identità di genere, fattori essenziali nella costruzione della soggettività, come messo in luce da Saraceno e Lingiardi in un loro recente intervento.
Su questo sarebbe bene confrontarsi apertamente: stiamo parlando di meri accidenti della vita, o di dimensioni della dignità che meritano di essere riconosciute, nominate e protette? Si obietta che tali concetti siano di incerta definizione e che, comunque, la proposta li definisca in modo troppo vago, giuridicamente impreciso (anche se, ad esempio, il dossier del Servizio studi del Senato non contiene alcun rilievo tecnico sul testo) o addirittura rischioso.
Ma non si aggiunge che quelle definizioni non hanno la pretesa di istituire giuridicamente quelle condizioni personali, fissandone il contenuto una volta per tutte: più modestamente, intendono fornire al giudice strumenti e criteri minimi per riconoscere il movente d’odio, lì dove si annida.
La questione dell’identità di genere
Esemplare, sul punto, proprio la controversa questione dell’identità di genere. La sua definizione, all’articolo 1, ricalca il testo della sentenza n. 180/2017 della Corte costituzionale, in cui si legge che «l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli (...) al momento della nascita con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisce senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere».
Una definizione che protegge le persone trans* dalla violenza in ogni momento del loro percorso di vita; limitarne la portata solo a chi abbia già ottenuto la rettificazione anagrafica metterebbe a rischio le persone più vulnerabili, oggetto di odio perché percepite “non conformi” al modello binario uomo/donna. E ciò, senza che peraltro la differenza tra i sessi venga negata. Si tratta, molto più semplicemente, di riconoscere che i corpi possono essere attraversati dalla libertà.
Che esistono esperienze di vita plurali e diverse, le quali devono poter esistere senza correre il rischio di subire discriminazione o violenza. Il testo, infine, previene e contrasta l’omotransfobia anche sul piano culturale e sociale. E non lo fa certo per “educare”, ma per trasformare le condizioni strutturali in cui discriminazione e violenza prosperano. Non si tratta di insegnare alle persone più giovani (e non solo) che “tutto è permesso”, semmai di mettere in discussione gli stereotipi che ostacolano l’affermarsi di una cultura del rispetto.
E, certo, di dar loro la sicurezza di sapere che possono essere accolti quale che sia la direzione che prenda la loro crescita. Che ogni persona deve poter essere e affermare se stessa senza timore, in uno spazio pubblico e in un ambiente scolastico aperto e inclusivo. La lezione, in fondo, è quella dell’articolo 3 della Costituzione: l’uguaglianza non si tutela soltanto eliminando discriminazioni, ma anche (e soprattutto) rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Questa è l’unica pedagogia possibile, nella nostra democrazia.
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