- Il decreto e la nuova prassi dei “porti distanti” perseguono un solo obbiettivo e ottengono un solo risultato: svuotare il Mediterraneo centrale dalle navi delle Ong.
- Se si volesse veramente garantire un’equa ripartizione sul territorio di rifugiati e migranti, sarebbe molto più razionale, rapido, umano ed opportuno garantirla usando i pullman, come si è fatto per anni.
- Sbarchi più rapidi potrebbero essere garantiti mediante il dispiegamento di più mezzi di soccorso e la possibilità di trasferire i naufraghi da una nave di soccorso all’altra – come navi della Marina e della Guardia Costiera hanno fatto innumerevoli volte in passato – cosicché una nave possa riportare i sopravvissuti a terra mentre l’altra resta a cercare naufraghi tra Sicilia e Libia.
La notizia del rilascio della Geo Barents dal porto di La Spezia, dopo lo sbarco di 237 donne, uomini e bambini e l’interrogatorio del capitano, va accolta con un sospiro di sollievo. La nave non aveva fatto nulla di male, ma la decisione di soccorrere le persone presenti su due ulteriori imbarcazioni in pericolo – dopo un primo salvataggio iniziale – aveva destato preoccupazione che il governo potesse adottare per la prima volta le sanzioni previste dal decreto 1/2023, approvato un mese fa.
Così non è stato, e questa è senz’altro una buona notizia, oltre che un ovvio corollario dell’obbligo di ogni capitano di soccorrere persone in pericolo in mare. Ma sarebbe un errore pensare che, visti questi primi esiti, le nuove misure non siano estremamente pericolose.
Il plurale sembra d’obbligo perché il decreto, che ora approda nell’aula di Montecitorio per la sua conversione in legge, va inteso in combinazione con un’altra novità, quella prassi dei “porti distanti” che da sei settimane sta condannando le navi delle associazioni di soccorso a percorrere anche 1.500 chilometri prima di poter sbarcare a terra le persone strappate al mare.
Una prassi assolutamente non in linea con il diritto e gli standard internazionali, che prevedono l’obbligo per gli Stati di garantire «il prima possibile» l’approdo di navi che trasportano naufraghi, le quali dovrebbero essere liberate dalle loro responsabilità «con una deviazione ulteriore minima rispetto al viaggio pianificato», senza essere assoggettate a «ritardi innecessari, oneri finanziari o altre difficoltà dopo aver assistito persone in mare».
Rischi per legge
La prassi e il decreto creano problemi significativi in almeno tre aree. In primis, vi è l’evidente pericolo che vengano lasciate a morire in mare persone che avrebbero potuto essere salvate.
Questo non per la mancata volontà delle Ong – il caso della Geo Barents lo dimostra – ma perché le loro navi vengono costrette a ritornare più spesso in porto e a farlo in porti lontanissimi, dunque restano loro molti meno giorni per pattugliare il mare e salvare chi trovano.
Che ne è di quelle donne, di quegli uomini e di quei bambini che finiscono in acqua nei giorni in cui le navi delle Ong sono in giro per il nord Italia, piuttosto che nel Mediterraneo centrale?
I tragitti di rientro più lunghi prolungano le sofferenze di chi, una volta soccorso in mare, deve attendere per giorni prima di ricevere assistenza a terra.
Le navi delle Ong non sono navi da crociera, e le persone soccorse non sono turisti, ma vittime di naufragio. Su questa base, non dovrebbe occorrere troppa empatia per immaginare la situazione di bambini piccoli, donne incinte, persone ustionate dal solito mix di acqua salata e nafta, persone che hanno appena visto un familiare affogare, persone traumatizzate dalle torture subite in Libia solo qualche giorno prima. In quale mondo è una buona idea lasciare quelle persone sul ponte di una nave per giorni e giorni?
Resta poi il pericolo concreto che le nuove norme offrano un’arma per sanzionare le associazioni impegnate nel soccorso in mare, immobilizzandone le navi e punendo professionisti e volontari impegnati nelle operazioni di salvataggio, che hanno la sola responsabilità di aver salvato delle vite.
Questa rappresenta di per sé una violazione del diritto internazionale, che prevede l’obbligo per ogni Stato di consentire ai difensori dei diritti umani di operare senza paura di ritorsioni.
Il 31 gennaio è intervenuto anche l’Expert Council on NGO Law del Consiglio d’Europa, a sottolineare che il decreto 1/2023 «avrà un effetto agghiacciante significativo sul lavoro della società civile». Anche Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa, in una lettera al ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, il 26 gennaio scorso, ha chiesto al governo italiano di «considerare la possibilità di ritirare il decreto legge» sulle Ong.
Le alternatrtive
Il decreto e la nuova prassi dei “porti distanti” perseguono un solo obbiettivo e ottiene un solo risultato: svuotare il Mediterraneo centrale dalle navi delle Ong.
Se si volesse veramente garantire un’equa ripartizione sul territorio di rifugiati e migranti, sarebbe molto più razionale, rapido, umano ed opportuno garantirla usando i pullman, come si è fatto per anni.
Sbarchi più rapidi potrebbero essere garantiti mediante il dispiegamento di più mezzi di soccorso e la possibilità di trasferire i naufraghi da una nave di soccorso all’altra – come navi della Marina e della Guardia Costiera hanno fatto innumerevoli volte in passato – cosicché una nave possa riportare i sopravvissuti a terra mentre l’altra resta a cercare naufraghi tra Sicilia e Libia.
È in quei tratti di mare, infatti, che possiamo trovare le vere vittime di questo “uno-due” sferrato dal governo italiano. Le donne, gli uomini, i bambini lasciati soli in mezzo al mare, in balia delle onde. Ma sono anche aldilà del mare, nei centri di detenzione libici che non smettono di stritolare, per estrarne riscatti, le vite di chi viene intercettato in mare dai guardacoste libici.
Per una coincidenza, il decreto 1/2023 arriva nell’aula di Montecitorio proprio nell’anniversario del Memorandum d’Intesa con la Libia, ovvero nel giorno in cui scatta la sua proroga per altri tre anni, decisa dal governo Meloni lo scorso autunno.
Ma non è un caso che proprio in Libia si sia recata la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pochi giorni fa, per stringere accordi commerciali con una mano e promettere cinque nuove motovedette con l’altra. Per confermare che la strategia italiana resta la stessa: il controllo del Mediterraneo centrale delegato ai guardacoste libici, anche attraverso la continua caccia alle streghe nei confronti delle Ong che salvano vite.
Le questioni centrali non hanno nulla a che vedere con le Ong – che tra l’altro intervengono solo in una minima parte degli arrivi, circa il 10-15 per cento – ma con l’Italia e gli altri Stati europei.
Sono gli Stati, infatti, ad agire in sfregio del diritto e degli standard internazionali, a mostrarsi riluttanti verso forme di cooperazione che potrebbero garantire sbarchi tempestivi e meccanismi di condivisione delle responsabilità, e a strumentalizzare le operazioni di ricerca e soccorso per assicurare che il maggior numero possibile di persone venga sbarcato in Libia, e lì dimenticato.
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