- «Il Pd ha rimandato troppo a lungo la lotta alle disuguaglianze» ha sostenuto su questo giornale Piero Ignazi e l’affermazione non può che attivare l’allarme. Col corollario che andrebbe estesa molto oltre i confini nostri così da interpellare la sinistra nel suo complesso su entrambe le sponde atlantiche.
- arà in grado la sinistra italiana, e il Pd con essa, di ricomporre la frattura e cucire la trama slabbrata dei diritti per come si presenta ai nostri occhi?
- Domanda seria per tante ragioni, non ultima che dall’impresa dipenderà l’esito della prossima sfida elettorale. Ma premessa anche solo per tentare è lasciarci alle spalle la sindrome di una gerarchia “malata” tra diritti civili e sociali.
«Il Pd ha rimandato troppo a lungo la lotta alle disuguaglianze» ha sostenuto su questo giornale Piero Ignazi e l’affermazione non può che attivare l’allarme. Col corollario che andrebbe estesa molto oltre i confini nostri così da interpellare la sinistra nel suo complesso su entrambe le sponde atlantiche.
Perché se posta a quel livello, vale a dire con quell’ampiezza, si può facilmente replicare che sì, è andata davvero così, ma non si è trattato di un incidente di percorso.
La realtà, in estrema sintesi, è che per un quarto di secolo almeno (non poco tempo!) su quelle due sponde – Europa e Stati Uniti – a imporsi è stato un poco nobile compromesso politico e di governo.
Riassumiamolo così: chiunque governasse – conservatori, popolari, democratici, riformisti e socialisti – la strategia dell’Occidente si atteneva a un tacito accordo, a prevalere sarebbe stato un primato dei valori progressisti sul versante della qualità della democrazia e dell’accesso alla cittadinanza combinato con un primato in parallelo dei principi anti-statalisti sul fronte delle politiche economiche e sociali. Così largamente è avvenuto con alcune ricadute non banali.
Per dire, a sinistra la globalizzazione è stata interpretata dentro un determinismo che imponeva di pagare prezzi necessari a un’onda di modernità (sic) che non si poteva arginare con le mani, da lì una strategia di contenimento, mero contenimento, di delocalizzazioni industriali, precarizzazione dei rapporti di lavoro, congelamento di aumenti salariali (il dato segnalato opportunamente da Ignazi e riferito agli ultimi trent’anni di statistiche italiane).
A quel punto compito dei riformisti si è ridotto a smussare gli spigoli più urticanti delle politiche della destra la quale da parte sua ha proseguito serenamente nello svolgere il suo di mestiere: ridurre le tasse come mantra in barba a qualunque assetto di progressività, “affamare la bestia” dello Stato e della spesa pubblica liquidata per definizione come improduttiva se non parassitaria, nobilitare il “mercato” delle sole e migliori virtù distributive sottraendo l’allocazione delle risorse a qualsivoglia filtro o controllo espressione della volontà (o sovranità) popolare.ù
Rubo la sintesi a Gaetano Azzariti (il quale giunge a tale conclusione percorrendo il sentiero accidentato delle riforme costituzionali, ma la sostanza rimane la stessa): nell’ultimo ventennio in ragione di questo patto abbiamo finito spesso coll’oscillare «tra una tecnica senza morale e una politica senza pudore».
Bene, anzi male, ma se le cose stanno così è giustissimo il rimando di Ignazi all’ultima fatica editoriale di Fabrizio Barca con Fulvio Lorefice, Diseguaglianze, Conflitto, Sviluppo (Donzelli), che rifacendosi al pensiero di un luminare della materia quale Anthony Atkinson, accompagna alla più classica azione di re-distribuzione una altrettanto fondamentale strategia di pre-distribuzione, e questo se non vogliamo che disparità di censo, reddito, opportunità, e diritti, finiscano col produrre una nuova stratificazione dell’ingiustizia nel segno di quanto il compianto Tony Judt battezzava anni fa un “mondo guasto”.
Sarà in grado la sinistra italiana, e il Pd con essa, di ricomporre la frattura e cucire la trama slabbrata dei diritti per come si presenta ai nostri occhi?
Domanda seria per tante ragioni, non ultima che dall’impresa dipenderà l’esito della prossima sfida elettorale. Ma premessa anche solo per tentare è lasciarci alle spalle la sindrome di una gerarchia “malata” tra diritti civili e sociali.
Le cose non stanno così e anche senza scomodare la lucida profezia di Stefano Rodotà che lo illustrava benissimo quindici o vent’anni fa, basta la cronaca a rendere evidente come fondere i diritti – sociali, civili, di libertà e dignità individuale – rappresenta soprattutto ora la linea che più di qualunque altra demarca il confine tra destra e sinistra.
Che si tratti di migranti abbandonati al loro destino sull’isola di Lesbo (Unione europea copyright) o al confine tra Bielorussia e Polonia o sepolti in fondo al Mediterraneo, che siano gli operai sfruttati della logistica o i braccianti schiavizzati delle campagne, e ancora, gli operai licenziati via WhatsApp o i giovani che riempiono le piazze dei gay pride, la strada è quella: ricostruire la coscienza di quella parte di società che muovendo da bisogni irrisolti è disposta a battersi per una democrazia compiuta e una cittadinanza piena. E a farlo non per forza domani. Possibilmente ieri.
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