Una seconda sentenza vuole escludere l’ex presidente Usa dalle primarie del 2024. Una contrapposizione tra due visioni opposte della democrazia che ricalca un’altra virulenta contrapposizione, tra politica e giustizia
Dopo il Colorado, con la sentenza del 28 dicembre 2023, il Maine è il secondo stato che tenta d’impedire la partecipazione di Donald Trump alle primarie del 2024.
La segretaria di Stato Shenna Bellows, democratica, lo fa con riferimento alla Terza Sezione del Quattordicesimo emendamento della Costituzione statunitense, secondo cui chi, dopo aver prestato giuramento alla Costituzione, partecipa a un’insurrezione non può ricoprire alcuna carica istituzionale.
E le parole della sentenza sono molto chiare: stante il parere esperto di Gerard Magliocca, giurisperito della McKinney School of Law, quella del 6 gennaio 2021 fu insurrezione, che sta a indicare l’«uso pubblico della violenza da parte di un gruppo di persone al fine di ostacolare o impedire l’attuazione di quanto prevede la Costituzione».
Sovranità e norme
Non stupisce che Steven Cheung, portavoce della campagna elettorale di Trump, abbia definito la sentenza come un osceno attacco alla democrazia. Anzi, sta proprio qui l’elemento di massimo interesse: come a rivivere le velenose contrapposizioni di cento anni fa, di nuovo oggi si presentano l’un contro l’altra armate due fazioni che, pur contrapposte, dicono di perseguire la stessa nobile finalità, cioè difendere la democrazia.
E in effetti, si tratta di una lotta per il significato in una battaglia maculata di ambigui e calcolati sotterfugi semantici: la difesa della democrazia, nel gergo iperpopulista trumpiano, è difesa del valore supremo della volontà popolare, che, almeno stando ai sondaggi, vorrebbe affidare all’ex presidente un secondo mandato. Le sentenze di Colorado e Maine, in sostanza, sostengono invece che non si possa permettere a chi minaccia la democrazia di far uso dei diritti e delle prerogative che la democrazia tutela come beni fondamentali.
Insomma, per l’una fazione la democrazia è sovranità del popolo e dunque mandato forte del suo sommo rappresentante; per l’altra, è in primo luogo un assetto istituzionale bilanciato, l’utilizzo delle cui procedure prevede il rispetto di alcune norme di fondo. Ed è col massimo candore che Trump si fa latore di una concezione “forte” della sovranità come assenza di limiti.
Questi non sarebbero temperati freni alla possibile prevaricazione di un potere su altri, ma puri impedimenti all’azione di chi incarna il volere del popolo. Certo, Trump incipria la sua lotta per il potere con il nobile intento di combattere l’autoritarismo globalista, il cui fine, a suo dire, sarebbe quello di fare strame delle differenze culturali e dei cari vecchi valori liberali della democrazia statunitense. Così facendo, stila un sintetico ma efficacissimo manifesto del sovranismo più furbo, che s’intesta le battaglie per la libertà contro il dominio di chissà chi e pretende di fiaccarlo con la testa d’ariete della democrazia autoritaria.
Politica e giustizia
Ma in questa vicenda statunitense c’è di più: questa contrapposizione tra due visioni opposte della democrazia ricalca ed eccita un’altra virulenta contrapposizione tipica dei nostri giorni: quella tra la politica e la giustizia. Infatti, per la seconda volta dopo il celebre confronto tra Bush e Gore, sarà la Corte suprema a dover prendere una decisione dall’impareggiato peso politico, in un clima però sfibrato e, come sensatamente attestato nelle recenti sentenze, pronto all’insurrezione armata.
La Corte suprema, a trazione repubblicana, potrà certo riabilitare Trump, ma non sta qui il punto. Di fatto, la politica non è riuscita a trovare alternative al fascino della sovranità forte di Trump, che trae vantaggio dalla lotta senza quartiere alla sua candidatura proprio come i gruppi fascisti degli anni Trenta traevano vantaggio dalle incarcerazioni preventive e dalle reazioni vistose e scomposte ai loro tentativi di golpe.
Allora non fu possibile impedire l’ascesa a quanti volevano scalare la democrazia con strumenti democratici, proprio perché più abili nell’uso propagandistico delle misure varate contro di loro. E se con ciò non intendo accostare Trump a Hitler, né ai meno noti Quisling o Henlein (benché il Nostro potrebbe stupirci a lungo andare), voglio piuttosto rimarcare la sconfortante assenza di prospettiva politica in chi lo combatte.
L’errore esiziale, a questo punto, sarebbe cedere inconsapevolmente alla propaganda trumpiana e intendere l’intervento del potere giudiziario come tentativo d’interferenza. Così non è.
Perché il potere giudiziario è parte vitale di quell’ordinamento costituzionale che solo nel suo complesso, e non in una delle sue articolazioni, rappresenta il popolo.
La giustizia vigila sulla regolarità delle procedure, che non sono condizioni sufficienti ma certo necessarie per l’esistenza della democrazia. Quella delle Corti, quindi, è una responsabilità politica, ivi compresa quella di determinare il significato giuridico, quindi politico, di “insurrezione” e determinare una volta per tutte che chi rappresenta le istituzioni democratiche non può in nessun caso usare i propri poteri per sopprimere lo stato di diritto. Si ringraziano quindi Colorado e Maine per voler impedire, almeno al momento, il suicidio della democrazia.
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