- Offrire vantaggi professionali in relazione al genere, all’età, alla maternità può costituire un’ipotesi di discriminazione ai sensi del Codice delle pari opportunità, nonché un trattamento di dati personali che esula dai casi consentiti.
- Avere figli non è «un dovere scritto nel DNA», ma una scelta, e nel 2022 sembra assurdo ribadirlo. L’imprenditrice promuove stereotipi culturali purtroppo consolidati, anziché provare a ribaltarli.
- Le assenze per maternità possono essere un problema organizzativo per l’imprenditore. Ma l’alternativa è il crollo della natalità, che penalizza il Paese, imprenditori compresi. Franchi parla di carenze dello Stato: da imprenditrice potrebbe adoperarsi per colmarle, ad esempio con un asilo nido aziendale, anziché limitarsi a scartare le lavoratrici madri dai ruoli più rilevanti.
Sono ormai note le dichiarazioni di Elisabetta Franchi nel corso di un evento sulla presenza femminile nel settore della moda italiana. Al di là delle polemiche, le affermazioni dell’imprenditrice meritano di essere esaminate anche sulla base di norme e dati.
Il congedo per maternità
«Quando metti una donna in una carica importante, poi non ti puoi permettere di non vederla per due anni», ha dichiarato Franchi. Il congedo di maternità obbligatorio copre un arco di tempo pari a cinque mesi a cavallo del parto (d.lgs. n. 151/2001, modificato da ultimo con la l. n. 145/2019). E poi c’è un periodo di congedo facoltativo pari a sei mesi, in cui si percepisce solo il 30 per cento di stipendio (d.lgs. n. n. 80/2015).
Undici mesi in tutto, e non di due anni, come dice Franchi. E quante madri hanno la possibilità di rinunciare per sei mesi al 70 per cento della retribuzione, con le spese che un neonato comporta?
Il vero problema è che molte donne preferiscono licenziarsi, se il costo di una soluzione per l’accudimento del proprio figlio è maggiore rispetto al beneficio dello stipendio che percepiscono.
È quanto attesta la Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, predisposta dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL).
L’ultima Relazione mostra che, nel totale dei licenziamenti di lavoratori con figli, il 77,4 per cento sono donne, contro il 22,6 per cento di uomini. E «la causale del recesso individuata nella difficoltà di esercizio della genitorialità in maniera compatibile con la propria occupazione» è quasi esclusivamente femminile.
Discriminazione e privacy
«Da imprenditore spesso ho puntato su uomini», ha anche detto Elisabetta Franchi, aggiungendo poi di aver comunque scelto anche donne, purché “anta”: «se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno già fatti e se volevano separarsi hanno già fatto anche quello».
In base al Codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006, come modificato dalla l. n. 162/2021), ciò potrebbe configurare un’ipotesi di discriminazione.
Questa fattispecie ricomprende ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione di sesso, età, gravidanza, maternità o paternità ecc. pone o può porre il lavoratore, e i candidati in fase di selezione, in condizione di svantaggio rispetto ad altri oppure limitarli nella partecipazione alla vita o alle scelte aziendali, nella progressione della carriera ecc..
Determinare avanzamenti professionali in relazione ai criteri indicati può costituire una violazione del Codice.
Le dichiarazioni dell’imprenditrice andrebbero valutate anche ai sensi della normativa privacy, considerato che, come affermato dal Garante per la protezione dei dati personali, il datore di lavoro può lecitamente trattare informazioni di carattere personale solo «nella misura in cui siano necessarie per dare corretta esecuzione al rapporto di lavoro».
Quindi, per esempio, «per quantificare le ferie e i permessi, per appurare la sussistenza di una causa legittima di assenza», oppure «per la fruizione di permessi o aspettative sindacali e periodi di comporto» o, ancora, per «le comunicazioni ad enti previdenziali e assistenziali».
Trattare i dati relativi all’età, al matrimonio, ai figli ecc. per valutare la candidabilità alla dirigenza attiene a tutt’altro.
Gli stereotipi
«Noi donne abbiamo un dovere che è quello scritto nel nostro Dna» - ha aggiunto Franchi - «i figli li facciamo noi e comunque il camino in casa lo accendiamo noi, quindi è nostra responsabilità occuparcene».
Premesso che avere figli non è un dovere, ma una scelta, l’imprenditrice insiste a promuovere stereotipi culturali che forse le appartengono e che purtroppo sono molto diffusi.
Secondo una ricerca del Censis, Il talento femminile mortificato, «l’educazione e la cura dei figli sono ritenuti compiti preminentemente femminili, esercitati quotidianamente dal 97,0 per cento delle donne italiane» e «il 63,5 per cento degli italiani riconosce, che a volte può essere necessario o opportuno che una donna sacrifichi un po’ del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi di più alla famiglia. Opinione che, addirittura, è fatta propria più dalle donne».
Peraltro, il gender gap è più rilevante proprio nel management, ambito di cui ha parlato l’imprenditrice.
L’assenza di strutture per l’infanzia
Elisabetta Franchi ha affermato che le sue parole sono state travisate: in realtà, avrebbe inteso dire che «lo Stato italiano è ancora abbastanza assente e, mancando strutture e aiuti, le donne si trovano a dover affrontare una scelta tra famiglia e carriera». Nel suo discorso, però, l’imprenditrice non ha trattato questo tema.
La carenza di strutture per l’infanzia è comunque un problema. Nella Relazione dell’Inl si spiega che la motivazione più frequente delle dimissioni delle lavoratrici madri è «la difficoltà di conciliazione dell’occupazione lavorativa con le esigenze di cura della prole» anche a causa dell’«elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato» o del «mancato accoglimento al nido».
Al Sud è più difficile entrare e restare nel mondo del lavoro dopo la maternità: come attesta l’Inl le cessazioni relative a lavoratrici madri, rispetto al totale per area geografica, rappresentano il 93 per cento nel Meridione, l’83 per cento nell’Italia centrale e il 72 per cento nel Settentrione.
Del resto, secondo i dati di Openpolis, la copertura degli asili nido in Valle d’Aosta è pari al 43,9 per cento, mentre in Campania è del 10,4 per cento.
Il “piano asili nido”, previsto dal Pnrr, indica che l’effettiva creazione di nuovi posti avverrà solo nel quarto trimestre del 2025. E comunque il piano consentirà forse di superare l’obiettivo del Consiglio europeo del 2002 (copertura del 33 per cento, mentre oggi la media è del 26,9 per cento), ma non di garantire la copertura del 50 per cento, che Spagna e Francia hanno già raggiunto nel 2019.
L’assenza di dipendenti per la maternità può essere un problema per l’imprenditore, a livello organizzativo.
L’alternativa è il crollo della natalità cui si assiste negli ultimi anni e che penalizza tutto il paese, imprenditori compresi, specie in termini di sostenibilità del sistema pensionistico.
Peccato che Franchi non lo affronti come servirebbe. A proposito, visto che ha parlato di carenze dello Stato nel supporto alla maternità, da imprenditrice sta facendo qualcosa per colmarle, ad esempio attraverso un asilo nido aziendale per aiutare le lavoratrici madri, anziché limitarsi a scartarle dai ruoli più importanti?
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