- Le condizioni degli ospiti delle residenze sono cambiate molto rispetto a 20 anni fa, ma anche solo a 10.
- In passato erano più giovani e in situazioni mediamente meno compromesse; la demenza, inoltre, era assai meno diffusa.
- L’intensità sanitaria, cioè l’impegno medio assistenziale per anziano richiesto agli operatori delle strutture, è in costante crescita da tempo.
Covid-19 ha spinto la questione dell’assistenza agli anziani non autosufficienti all’attenzione dell’opinione pubblica. L’auspicio è che questa opportunità, paradossalmente fornita dalla tragedia, induca il governo a rafforzare il settore. Secondo Mario Giro - come scritto su Domani - la strada maestra per farlo consisterebbe nella chiusura delle strutture residenziali. Io la penso diversamente.
Giro utilizza due argomenti. Il primo riguarda il contesto eccezionale segnato dal Covid: «Le case di riposo e le Rsa vanno chiuse» perché «numeri degli anziani morti» al loro interno durante la pandemia «sono troppo alti per non trarne le dovute considerazioni». Il secondo argomento tocca il quadro ordinario della residenzialità: «Il Covid-19 è stata un’atroce rivelazione, ma la situazione negli istituti era già aberrante». Bisogna, dunque, chiuderli.
La prima motivazione è la meno pregnante: non ci si può basare su quanto avvenuto in circostanze straordinarie per proporre cambiamenti dell’ordinario. Le opportune preoccupazioni di Giro suggeriscono di migliorare la capacità di gestire gli effetti della pandemia sulle residenze, cosa ben diversa da introdurre modifiche strutturali.
L’argomento chiave è il secondo, che fa delle vicende legate al Covid il sintomo di un problema più generale. Il suo limite, però, risiede nel non considerare il profilo degli anziani che oggi vivono nelle strutture: si tratta, perlopiù, di persone che richiedono cure costanti e qualificate sul piano clinico e assistenziale, impossibili da erogare in modo adeguato a casa. Il 74 per cento di loro ha almeno 80 anni e il 52 per cento almeno 85. Sperimentano varie patologie concomitanti, hanno salute instabile e soffrono di forti deficit nelle attività di base della vita quotidiana. Soprattutto, sono in prevalenza malati di demenza (Alzheimer), che coniugano disturbi cognitivi, problemi comportamentali e mancanza di autonomia e richiedono, dunque, una sorveglianza continuativa per tutte le 24 ore, da fornire impiegando professionalità adeguate.
Le condizioni degli ospiti delle residenze sono cambiate molto rispetto a 20 anni fa, ma anche solo a 10. In passato erano più giovani e in situazioni mediamente meno compromesse; la demenza, inoltre, era assai meno diffusa. L’intensità sanitaria, cioè l’impegno medio assistenziale per anziano richiesto agli operatori delle strutture, è in costante crescita da tempo.
Peraltro, le residenze sono poche in Italia poiché i posti letto ogni 100 persone di almeno 65 anni sono 1,9 per cento. Queste le percentuali di altri paesi comparabili: Olanda 7,3 per cento, Svizzera 6,4, Germania 5,4, Francia 5, Austria 4,6, Spagna 4,4. Nell’Europa occidentale solo la Grecia - con 1,8 per cento - ha un valore simile al nostro.
Non ridurre ma migliorare
Il tema vero non è ridurre l’offerta di residenzialità bensì - in numerosi contesti - migliorarla e riqualificarla. Gli operatori dovrebbero essere di numero adeguato all’impegno richiesto e dotati delle competenze necessarie per affrontare la demenza, tematica sulla quale siamo ancora indietro.
Bisognerebbe ridurre la promiscuità legata alla convivenza di più anziani in una stessa stanza, per andare in direzione di ospitalità in stanze singole che assicurino così adeguati spazi privati. L’elenco potrebbe continuare.
Alzando lo sguardo verso il complessivo sistema di assistenza, è bene essere chiari. Un robusto sviluppo dei servizi domiciliari, così come di altre soluzioni fornite nella comunità, è cruciale, ma deve affiancare e non sostituire il necessario intervento delle strutture residenziali nelle situazioni di estrema gravità. A meno, evidentemente, di non alimentare i costi economici e sociali a carico delle famiglie e l’inappropriatezza delle risposte.
Non è necessario chiudere le strutture bensì elaborare una strategia d’insieme per l’assistenza agli anziani in Italia.
Oggi, dunque, non bisogna battersi per la chiusura delle strutture residenziali. Bisogna battersi per riportare nell’agenda politica una riforma complessiva dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, guidata da uno sguardo unitario verso questo bistrattato settore.
Una riforma, pertanto, che sappia potenziare i servizi domiciliari, sviluppare anche altre soluzioni nella comunità, e riqualificare la residenzialità.
Gli esperti ne discutono dagli anni ’90 mentre l’ultimo tentativo della politica fu il disegno di legge delega del Secondo Governo Prodi nel 2007, poi accantonato con la sua caduta nell’anno successivo. Intanto, i paesi a noi comparabili – dalla Germania (1995) alla Spagna (2006) – l’hanno introdotta.
Solo una simile riforma potrebbe dare un senso, per quanto parziale, al dramma vissuto da tanti anziani e dalle loro famiglie in epoca di Covid.
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