- «Oltre quella linea c’è l’Ucraina, c’è la guerra. Secondo te c’è l’Europa?». Thomas, è uno dei tanti volontari presenti sulla striscia di terra di Medyka.
- Le autorità polacche ci tengono a ribadire che sono in prima linea e non si stanno tirando indietro e poco importa se al confine con la Bielorussia, non molto più a nord, si offrano come un laboratorio attivo della disumanità.
- Con chi scappa da Putin e dalla sua terrificante aggressione, invece, questa volta, l’Europa c’è. I profughi intrappolati da mesi, in numero molto minore rispetto a quelli che arrivano dall’Ucraina, sono, per tanti governanti, una storia da osteggiare, ignorandola.
«Oltre quella linea c’è l’Ucraina, c’è la guerra. Secondo te c’è l’Europa?». Thomas, è uno dei tanti volontari presenti sulla striscia di terra di Medyka, mi rivolge la domanda con il sorriso, indicando la linea, davvero pochi metri, che ci separa dalla nazione aggredita da Putin.
Il lembo d’Europa che fa da porta d’accesso alla cultura della solidarietà è occupato da due strisce di gazebo in mezzo alle quali passano le famiglie in fuga dal conflitto. Mi rendo conto che ai miei occhi sono immagini famigliari: in fondo i reportage raccontano questo squarcio solidale attimo dopo attimo.
Le organizzazioni umanitarie - polacche, francesi, israeliane, transnazionali - presenti sul campo distribuiscono beni di prima necessità e informazioni utili. Le attiviste e gli attivisti trasportano le valigie aiutando le donne, tantissime, e i bambini, coccolati da un drappello di educatrici. Arriva un gruppo di persone con disabilità e dei ragazzi si affrettano a spingere le carrozzine. Spesso appaiono gatti nelle gabbiette e cani piuttosto docili. Zainetti colorati e giocattoli.
Qualche chilometro più a ovest, a Przemysl, località che fa da polmone attivo del sostegno a questo fiume umano, c’è il grande centro da cui si ripetono collegamenti televisivi e riunioni.
Ovunque è un frenetico andare e venire di cittadine e cittadini che si mescolano tra loro. Ci sono quelli che arrivano, scappando cercando conforto, e ci sono quelli che son lì per aiutare.
La parte italiana, gestita dal Raggruppamento operativo emergenze in collaborazione con Infso, riempie di orgoglio. La distesa di brandine e materassi diventa un bel punto d’approdo. Lo raggiunge nel pomeriggio la carovana di Mediterranea Saving Humans, che trasporta aiuti e riporterà indietro persone mentre gli operatori di Sole Terre mi descrivono i loro interventi assolutamente straordinari, riguardanti la necessità di sostenere o evacuare i malati oncologici in territorio ucraino. Frequentemente capitano al centro i mezzi di trasporto, come quelli di Welcome Refugees partiti da Milano, destinati alle famiglie.
A Cracovia cambia il contesto ma non la cultura di fondo: anche in questo caso, innanzitutto grazie alla popolazione polacca, è un ripetersi di azioni solidali. Kamila, attivista che gestisce la pagina Facebook Zupa dla Ukrainy Krakòv, mi mostra orgogliosa i barattoli di minestra e il pane «che è il più buono della Polonia» destinati a sfamare.
Anima un luogo prezioso che ospita installazioni artistiche e barattoli di cibo situato a pochi minuti dalla “Piazza degli eroi del ghetto” di una città segnata, come poche altre, dalle terrificanti tragedie del novecento. E non è solo una questione di “popolo”: le autorità polacche ci tengono a ribadire che sono in prima linea e non si stanno tirando indietro e poco importa se al confine con la Bielorussia, non molto più a nord, si offrano come un laboratorio attivo della disumanità.
Quei profughi intrappolati da mesi, in numero infinitamente minore rispetto a quelli che arrivano in un giorno dall’Ucraina, sono, per tanti governanti, una storia da osteggiare, ignorandola. Ma con chi scappa da Putin e dalla sua terrificante aggressione, invece, questa volta, l’Europa c’è.
Il punto, in questi giorni da fiato sospeso, è come fare fino in fondo il lavoro di chi vuole accompagnare e sostenere con continuità.
Ne ragiono con Stefano Piziali di We World, presente per realizzare «qui e lì» interventi in profondità. Concordiamo su di un aspetto essenziale: non ci si potrà «limitare» solo a «letti» e centri messi a disposizione. Servirà un grande lavoro di scavo e di relazione, magari effettuato grazie a circostanze politiche che renderanno, almeno sul breve periodo, più facile che in passato la gestione istituzionale di questa crisi umanitaria.
Ci sarà bisogno di interventi finalizzati a integrare i bimbi nelle scuole, di percorsi di aiuto psico-sociale, di risorse fresche per il sostegno al reddito. Tutte cose che avrebbero meritato anche i siriani che scappavano dalla devastazione, e che meriteranno molte e molti altri, e che un bel pezzo d’Italia e d’Europa non hanno voluto (colpevolmente) sin qui considerare.
Ma il momento per riflessioni simili forse non è questo. Si deve agire, sperando che, poi, quel che si fa e si farà ora, “rimanga” e determini quel cambiamento radicale delle politiche connesse all’immigrazione che tanti, troppi, non hanno voluto considerare.
Lo penso mentre chiacchiero con Diana che con tutta l’energia dei suoi vent’anni, si dà da fare alla stazione ferroviaria, indicando alle famiglie dove si trovano «quelli della Caritas» e tranquillizzando i poliziotti: «È tutto sotto controllo».
Lavora in Polonia ma viene da un borgo poco distante da Kiev. Suo fratello è rimasto là, «lui combatte». Vorrebbe un sforzo decisivo della comunità internazionale fatto di armi ed eserciti perché «Putin è forte, ma noi, uniti, possiamo farcela».
Un vecchio volontario di una piccola organizzazione polacca dal nome impronunciabile d’improvviso le mostra qualcosa sul cellulare. Mi passano l’apparecchio indicando con le dita: c’è Putin che parla di fronte ad una folla enorme.
Sta spiegando al suo “popolo” la strategia contro i nazisti mentre davanti a me, appoggiati gli uni agli altri e stracolmi di zaini e valigie, i ragazzini cercano un poco di riposo sulle panchine della stazione.
La partita dell’Europa è e sarà molto complessa.
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