- Ogni volta che il tema della violenza basata sul genere si intreccia con la questione migratoria, le attiviste per i diritti delle donne sono accusate di restare in silenzio per il presunto timore di incorrere nell’accusa di razzismo.
- Nel caso di Saman Abbas, ciò che non si perdona a quelle che vengono schernite come “professioniste dell’indignazione di genere” è di non sposare il frame culturalista: la violenza come il prodotto di culture o religioni non occidentali.
- Questa lettura, però, ostacola il riconoscimento della violenza come fenomeno strutturale, mentre ignora la complessità determinata dall’intersezione di genere, etnia, religione, nazionalità, e finisce per offrire un alibi per non fare nulla.
Dove sono le femministe? Come avviene ogni volta che il tema della violenza basata sul genere si intreccia con la questione migratoria, le attiviste per i diritti delle donne sono accusate di restare in silenzio per il presunto timore di incorrere nell’accusa di razzismo. In realtà, basterebbe scorrere i comunicati presenti sulle pagine dei movimenti e di tutte le principali organizzazioni italiane, a partire dalla rete D.i.Re che riunisce i centri antiviolenza, per accorgersi che le femministe dicono parole chiare, di rabbia e denuncia, sull’ennesimo caso di femminicidio che – ormai è certo – ha tolto la vita alla diciottenne pakistana Saman Abbas.
Ciò che non si perdona, però, a quelle che vengono schernite come “professioniste dell’indignazione di genere” è di non sposare il frame culturalista, che pretende di leggere la violenza contro le donne primariamente come il prodotto di culture o religioni diverse da quella occidentale – in particolare l’islam.
Questo frame è rifiutato da gran parte del femminismo perché ostacola il riconoscimento della violenza come fenomeno strutturale, finendo, per esempio, per oscurare le 45 morti per femminicidio avvenute nel paese nel 2021, di cui sono responsabili partner, ex partner, familiari.
Mentre gli omicidi sono stabilmente in calo dagli anni Novanta, quelli commessi in ambito familiare, che contano principalmente donne tra le vittime, non vanno diminuendo e tendono a costituire una quota sempre maggiore del totale.
Oltre lo scontro di civiltà
Il problema è dunque più grave di quanto vogliono far credere gli imprenditori delle politiche anti-immigrazione e i fautori dello “scontro di civiltà”. Come si legge nell’indagine dell’Istat sulla violenza sulle donne dentro e fuori la famiglia, «se è vero che ci sono culture o subculture in cui il dominio dell’uomo sulla donna è considerato più accettabile e quindi le violenze sono più frequenti, è altrettanto vero che l’identikit dell’uomo violento corrisponde al ‘signor qualunque’: disoccupato, operaio, impiegato, professore, poliziotto, medico...».
E allora tutti i casi sono uguali? No. Ed è ancora una volta il femminismo ad averci insegnato a vederlo, a partire da quando, all’inizio degli anni novanta, la giurista afroamericana Kimberlé Crenshaw ha applicato il concetto di «intersezionalità» alla lettura della violenza contro le donne, per mostrare come il genere, l’etnia, la classe, la religione, la nazionalità si intreccino tra loro condizionando sia l’esperienza degli abusi, con le difficoltà d’emersione e protezione, sia il discorso politico e mediatico sul tema.
La violenza invisibile
Adottando questo approccio, dobbiamo notare in primo luogo che la violenza subita dalle donne straniere resta largamente invisibile allo sguardo pubblico. Eppure migranti, richiedenti asilo, rifugiate, devono confrontarsi ogni giorno sia con il rischio cui le espone il semplice essere donne, sia con gli atteggiamenti ostili o razzisti della società d’accoglienza, sia, spesso, con le forme più accentuate di controllo che le loro comunità di appartenenza mettono in atto proprio nell’esperienza della migrazione e dell’asilo.
La scarsa attenzione alla loro condizione aggrava il pericolo di esiti letali, come mostrano i dati sul femminicidio in Italia, secondo cui le donne straniere uccise in Italia sono il 22 per cento del totale (649 su 3.000, tra il 2000 e il 2016); e ad ammazzarle è stato, nel 40 per cento dei casi, un uomo italiano.
In secondo luogo, dobbiamo osservare la tendenza della politica e dei media di destra a portare l’attenzione sulla violenza subita dalle donne straniere solo quando la possono facilmente ascrivere a un orizzonte “altro”, e strumentalizzarla per rinfocolare il conflitto tra collettività etniche, culturali, religiose.
Così, le donne “altre” finiscono schiacciate tra due sistemi oppressivi che pretendono di usarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, le regole dell’onore, della modestia femminile e della sottomissione che vogliono costringerle in una posizione subalterna al potere maschile, dall’altro uno sguardo “occidentale” che le compatisce come vittime ma intanto ne fa altrettante pedine nella battaglia contro lo straniero.
La doppia esclusione
Invisibilità e strumentalizzazione determinano una condizione di doppia esclusione, mentre ostacolano la consapevolezza rispetto agli interventi che sarebbero necessari, e che includono: il rafforzamento degli strumenti di contrasto alla violenza di genere, a partire dai centri antiviolenza e dalle reti territoriali; l’aumento di competenze culturali e linguistiche per andare incontro alla domanda d’aiuto di donne straniere; gli interventi di educazione e sensibilizzazione, nella scuola e nella società; politiche di integrazione sensibili alla dimensione di genere e mirate a contrastare forme di segregazione femminile all’interno delle comunità straniere.
Bisogna essere consapevoli che l’enfasi sull’insuperabile distanza culturale tra alcune collettività migranti, come quella pakistana, e la società d’accoglienza non solo ignora la realtà della mescolanza di cui proprio ragazze come Saman si fanno testimoni, ma finisce per offrire un alibi per non fare nulla, per condannarle all’abbandono quando subiscono o rischiano di subire violenza. E ci lascia più impotenti di fronte alla sua morte.
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