Da tempo non si vedeva una manifestazione di queste dimensioni, animata da persone giovani e giovanissime. Cos’è successo? Cosa c’è all’origine di quella che a tutti gli effetti appare come una nuova “ondata” del femminismo, e insieme come il ritorno di un più grande desiderio di politica?
«Siamo marea»: da anni questo grido si leva dalle piazze del 25 novembre convocate dal movimento Non Una di Meno. Sabato più che mai è stata una marea, spesso disordinata: un popolo senza bandiere e simboli, centinaia di migliaia di donne, ma anche uomini e persone non binarie, scese in strada per dire “basta”. Basta all’orrore, al terrore che nasce da una violenza senza fine. La rabbia per la morte di Giulia Cecchettin e di tutte le altre si è trasformata in energia, in forza che scaturisce dall’agire insieme.
Da tempo non si vedeva una manifestazione di queste dimensioni. Tantomeno animata, come questa, da persone giovani e giovanissime. Cos’è successo? Cosa c’è all’origine di quella che a tutti gli effetti appare come una nuova “ondata” del femminismo, e insieme come il ritorno di un più grande desiderio di politica?
Contro l’oppressione
C’è il femminicidio, certo, la brutalità endemica che cancella le vite delle donne. È questo il motivo al cuore delle mobilitazioni che dal 2015, dall’Argentina al resto del mondo, hanno raccolto il motto “Ni una menos”, tratto dai versi della poetessa messicana Susana Chávez: «Ni una mujer menos, ni una muerta más» – né una donna in meno, né una morta in più.
Però il movimento ha assunto, fin dal principio, l’aspetto di una protesta vigorosa contro tutte le forme di oppressione che si intrecciano alla violenza “machista”: lo sfruttamento nella sfera produttiva e riproduttiva, l’espropriazione di risorse comuni, l’aggressione all’ambiente che sostiene la vita, l’attacco al welfare. Questo, come scrive l’attivista e ricercatrice Veronica Gago, «ha trasformato un movimento contro il femminicidio, focalizzato sulla sola domanda “smettete di ucciderci”, in un movimento radicale, di massa, capace di connettere e politicizzare in modo inedito il rifiuto delle violenze».
Si trova qui il significato ultimo di quell’aggettivo “intersezionale”, che si affianca sempre più spesso alla parola “femminismo”. L’intuizione fondamentale è che per comprendere l’oppressione delle donne non possiamo ridurre la nostra attenzione a un unico fattore, ma dobbiamo indagare come tanti fattori – il genere, la classe, lo status migratorio, il colore della pelle, la sessualità – si intersecano tra loro, esponendo i gruppi sociali a forme diverse di vulnerabilità.
Lessico della piazza
È grazie innanzitutto a questa ambizione, all’ampiezza e profondità del suo sguardo, che la protesta femminista sta dimostrando la capacità di incanalare il desiderio di politica di generazioni (non solo di donne) cresciute all’ombra della “post-democrazia”, di una democrazia disanimata. La capacità di incanalarlo in un movimento aperto, inclusivo, post-identitario, in cui il “noi” politico emerga più grande delle sue componenti.
La dimensione di massa di queste mobilitazioni sembra avvantaggiarsi proprio della capacità di porsi meno interrogativi identitari – su chi è il soggetto che convoca, e quali sono i criteri per appartenervi – e più obiettivi politici legati a quello che Judith Butler ha chiamato il «diritto di apparizione», il farsi presenza sulla scena pubblica delle domande di giustizia.cA unire le lotte è il tema della “vita”. Il bisogno di insorgere contro la paura per la vita propria e altrui. Ma anche di denunciare l’assenza di condizioni sociali capaci di garantire benessere, e felicità. È perciò, quello della piazza, un lessico che chiama alla trasformazione radicale del presente. Che non si articola in domande alle istituzioni, ma obbliga partiti, sindacati, membri del Parlamento ad esserci. E a trasformare in mozioni, politiche, leggi questo grande “rumore”.
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