Sta crescendo la pressione sul papa che diventerà fortissima quando dovesse mancare Benedetto XVI: molti chiederanno le sue dimissioni
- Il caso di Angelo Becciu è senza precedenti: mai un prefetto aveva dovuto dare le dimissioni in questo modo, e Becciu non è neanche mai stato annoverato tra i nemici del papa, difensori di correnti reazionarie.
- Chi dunque vuole colpire Francesco o indebolirlo non ha che un’arma indiretta: farlo apparire come un puro, pio, spiritualissimo papa inetto.
- Sta crescendo la pressione sul papa che diventerà fortissima quando dovesse mancare Benedetto XVI: molti chiederanno, ancora una volta in nome dei problemi strutturali irrisolti, una rinuncia che trasformerebbe la libertà di dimettersi di ogni pastore in una legge non scritta per la chiesa.
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(Angelo Becciu. Foto LaPresse)
Mai. Mai un prefetto aveva dovuto dare le dimissioni dal proprio dicastero come è accaduto ieri, quando Angelo Becciu ha riconsegnato al papa la guida della congregazione delle cause dei santi e (come dice uno sgrammaticato comunicato vaticano) i “diritti” della sua porpora. Atto maturato per le vie brevi, ritenuto inevitabile, alla vigilia della pubblicazione di carte relative alla gestione di quattrini che le solite talpe hanno passato a l’Espresso: da esse emergerebbe che dopo una serie di operazioni immobiliari e finanziarie in Angola e a Londra, Becciu avrebbe girato ai congiunti di fondi e favori.
Atto, però, che come dicevo non ha mai avuto precedenti. Perché la rinuncia al cardinalato di Louis Billot, che restituì la berretta al papa al termine di un furibondo litigio aveva un’altra origine: egli aveva criticato la condanna papale del movimento reazionario dell’Action Française e quanta fosse la sua indignazione nel rendere quel segno della dignità cardinalizia e quanta quella del papa nel farsela ridare è oggetto di riparti differenti.
Quando a giugno del 2018 Francesco ha tolto Theodor McCarrick – quello che da arcivescovo di Washington disse che dare la comunione al candidato democratico John Kerry “era un problema” – sia la porpora che la dignità episcopale i motivi erano altri: si era in presenza di un molestatore seriale di seminaristi neocatecumenali di cui troppi conoscevano i risvolti da anni.
Becciu no. Non è mai stato il difensore di correnti reazionarie: se mai ha cercato aprendo la porta di casa a Giancarlo Giorgetti di trovare la “parte buona” del sovranismo salviniano, come se ci fosse.
Non è mai stato un uomo di vizi: e se mai ha praticato quella ascetica del potere che è un po’ tipica dell’ufficio del Sostituto – il ruolo ricoperto prima di lui da Montini, Silvestrini, Filoni – l’uomo cioè che regola molto dell’accesso al papa, i rapporti col governo, e gli affari politici in un rapporto di strutturale concorrenza col Segretario di stato.
Gli affari contestati
È invece emerso da quasi due anni che quell’ufficio, che investiva alcuni cespiti vaticani si era imbarcato in manovre spericolate perlomeno nella scelta come di partners di finanzieri sui cui quali proprio Becciu era stato messo in guardia.
Un palazzo a Londra (nel frattempo cresciuto di valore) era stato oggetto di inchieste passate alla stampa e una serie di funzionari erano stati messi alla porta.
Un repulisti spiccio – oggi usa così – le cui conseguenze sarebbero venute giù a valanga: il 19 ottobre Domenico Giani, il comandante della gendarmeria vaticana e garante del sistema di protezione del papa veniva spinto alle dimissioni, solo per aver diffuso alle porte vaticane le foto dei funzionari licenziati così che non potessero rientrare alla chetichella nei loro uffici.
Alcuni dei licenziati, ascoltati da un sistema inquirente molto peculiare, iniziavano a raccontare di usi ancor più improprio di quei fondi, di cui avrebbero beneficiato i famigliari del sostituto, che è titolare di una discrezionalità piena.
L’accusa può darsi sia circostanziata, e che se la logica giustizialista che ha dotato “quel poco di terra che basta a contenere l’anima” della Santa sede in uno staterello con piccoli, tribunali, piccoli inquirenti, piccoli processi, piccole talpe, vorrà un processo che giudichi e se mai condanni Becciu.
Anche se è difficile far combaciare con la fama e la storia di uomo che avrebbe potuto ottenere qualsiasi cosa da chiunque senza bisogno di esporsi in operazioni bislacche e sulle quali anche lui doveva sapere aleggia la celebre regola del cardinal Tardini: «Niente resta segreto per sempre».
Se mai ritorna in bocca l’amaro sapore dell’affaire Salonia: frate cappuccino, psicoterapeuta, che doveva diventare ausiliare dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice.
Contro Giovanni Salonia era stata fatta girare l’accusa di aver abusato di una religiosa: accusa poi rivelatasi del tutto infondata, ma che era arrivata senza verifiche in tempi talmente rapidi all’orecchio del papa da far pensare che fosse stato uno dei fratelli di Becciu a usarlo come canale di calunnie siciliane.
Guardie, ladri e mandanti
Le indagini non diranno cosa c’è di vero e cosa c’è di falso nelle accuse contro Becciu, di cui vedremo le foto con gli occhiali scuri, per dare a questo diplomatico focolarino meno scafato del previsto un look truce.
Ma il fatto che nel pasticcio dell’immobile di Londra abbia inciampato anche monsignor Peña Parra – il successore di Becciu – deve far però capire che la questione non è una partita a guardie e ladri in talare e mozzetta, aiutati da un giornalismo incline a pubblicare dossier che hanno curatori, mandanti e fini precisi.
È una pericolosissima faida (nella curia? fra movimenti? fra diplomatici?) nella quale tutti continueranno a portare al papa accuse caricati a pallettoni contro tutti, scommettendo che come in una roulette russa il decisionismo bergogliano darà corda ad atti di giustizia spicciativa.
Gli impatti sul papa e sul papato sono pericolosi e non riguardano l’abusata categoria dei “nemici” del papa. Che papa Francesco abbia dei nemici è scontato. Che fra questi ci siano personaggi come Mike Pompeo, che, come dimostra la preparazione e l’agenda della sua visita a Roma, rivendica il diritto di scegliere il pezzo di chiesa da lodare, il pezzo di chiesa da bastonare e il pezzo di chiesa da ricattare, è meno scontato, ma in fondo non decisivo.
Perché la forza di Francesco non è nel gestire diplomaticamente tutto ciò – cosa a cui pensa il cardinale Parolin: ma riposa nella sua personale e profonda fisionomia evangelica. Essa non impedisce al papa errori di governo, passi falsi e bruschezze: ma lo rende invulnerabile agli strali ostili diretti.
Chi dunque vuole colpire Francesco o indebolirlo non ha che un’arma indiretta: farlo apparire come un puro, pio, spiritualissimo papa inetto. Capace di licenziare, di far saltare chiunque, ma certificato dal ripetersi di tali sanzioni come impotente davanti a bassezze morali che non è in grado di controllare: e dalle quali lo si assolve dandogli untuosamente del santo, del severo, dell’infuriato inconcludente. E dato che le meschinerie della chiesa di Roma, specie a Roma, sono innumerevoli, l’arma indiretta diventa inesauribile.
La pressione sul papa
Il papa dovrebbe essere difeso da questo tipo di diminuzione dalla comunione dei vescovi in primo luogo; e in secondo luogo da una curia in cui, però, avendo lui per primo fatto saltare meccanismi istituzionali derubricati a usanze di “corte”, tutto si contorce e solo chi gli segnala storture rimediare fa davvero il suo dovere di aiutarlo. lo protegge, e sono pochi.
E dunque egli si trova esposto ad una pressione che diventerà fortissima quando dovesse mancare Benedetto XVI, chiedendo, ancora una volta in nome dei problemi strutturali irrisolti, una rinuncia che trasformerebbe la libertà di dimettersi di ogni pastore in una legge non scritta per la chiesa di Roma. E preparare la prosecuzione di un papato non italiano.
«Abbiamo visto cadere le stelle»: così disse all’uscita del conclave del 1978 il cardinale Pellegrino. Il riferimento era allo scontro fulmicotonico fra i cardinali Benelli e Pignedoli che aveva chiuso (definitivamente) il discorso su un papato italiano.
Sotto gli occhi increduli dei porporati, infatti, si era consumato un duello condotto a colpi di allusioni e volgarità che aveva dato a tutti la sensazione che i porporati della penisola avessero perso il diritto al trono di Pietro di cui avevano goduto ininterrottamente.
Una convinzione non dissimile aveva percorso il conclave del 2013: quello nel quale – il papa dimissionario era tedesco, il suo prefetto della dottrina della fede tedesco, francesi e delle Americhe alcune delle figure più alte della curia – ci si era però convinti che il disordine sistemico che aveva segnato l’ultimo triennio di Benedetto XVI fosse un problema “italiano” e che escludendo “gli italiani” dalla successione – prendendo cioè un papa dall’emisfero sud e con una fisionomia spirituale fuori dal comune – si sarebbe posto rimedio ai guai del governo.
Non era vero. I guai non erano italiani, ma strutturali: e sotto il papato di Francesco, chetatisi per un poco, si sono riproposti trovando qualche mente finissima che ha capito come usarli per garantirsi un domani che non li affronti.
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