- La democrazia nei partiti e il finanziamento della politica sono questioni importanti, e molto, meno avulse dalla vita concreta dei cittadini di quanto comunemente non si creda.
- Nella nostra Costituzione, del resto, era stato ed è previsto, benché in modo un po’ vago, che i partiti devono essere democratici.
- Nulla venne previsto invece, dai nostri padri costituenti, sulle modalità di finanziamento e la trasparenza dei bilanci (ci furono alcune proposte ma vennero lasciate cadere). E forse non è un caso che proprio qui si palesarono, subito, i problemi.
Diciamo una cosa controcorrente: la democrazia nei partiti e il finanziamento della politica sono questioni importanti, e molto, meno avulse dalla vita concreta dei cittadini di quanto comunemente non si creda. Il fatto che si sia riaperto il dibattito (si pensi a un editoriale di Sabino Cassese sul Corriere della Sera, La politica povera e i partiti fragili, del 20 settembre) è quindi positivo, se non altro per le possibilità, la speranza, di riuscire ad avere una classe politica che non sia in balia della demagogia del momento, ovvero capace di affrontare i nodi strutturali del nostro declino, oltre alle sfide che l’Europa ha davanti.
Non è un caso che proprio alcuni studiosi del declino italiano, come Andrea Capussela, o se vogliamo anche chi scrive, abbiano proposto di ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti, legandolo però in modo stringente a requisiti sulla democrazia interna (ad esempio, l’indizione di regolari congressi) e destinandone una parte all’attività di ricerca (ad esempio, attraverso fondazioni strutturate che discutano e veicolino i risultati degli studi più importanti al mondo, dall’economia al diritto, all’etica, dall’ambiente alla tecnologia).
L’Italia deve il suo miracolo economico anche al fatto che, dopo la Seconda guerra mondiale e il crollo del fascismo, si dotò di una classe dirigente nuova, sorretta da grandi partiti popolari che selezionavano il loro personale politico e sapevano mediare le richieste che venivano dalla società e dai corpi intermedi, e non a caso erano guidati ai vertici da figure di riconosciuto spessore intellettuale (Einaudi, Togliatti e Amendola, De Gasperi, Fanfani e Moro, Nenni e Saragat, La Malfa) che in alcuni casi erano un punto di riferimento del dibattito culturale nei rispettivi campi, a livello mondiale.
Questi partiti svolgevano in alcuni casi anche la funzione (nel senso autentico e positivo) di ascensore sociale; e in ogni caso costituivano una scuola civile che contribuì anche alla crescita culturale degli italiani. Formavano i cittadini, erano la linfa della repubblica, e della democrazia, furono un argine nella stagione della violenza terroristica e seppero neutralizzare le tentazioni autoritarie.
Quei partiti non erano affatto strutture leggere, anzi erano molto pesanti. Ed erano sentiti e partecipati dai cittadini. Dal 1946 al 1956, il Partito comunista italiano ebbe sempre più di 2 milioni di iscritti, e quando si sciolse, nel 1990, ne annoverava ancora 1,3 milioni. La Democrazia cristiana oscillava fra 1 e 2 milioni e in alcuni anni (a cavallo fra i Sessanta e i Settanta e alla fine degli anni Ottanta) superò il Pci.
Il Psi, il più piccolo fra i tre, nel 1946 raggiunse gli 860mila iscritti e poi, negli anni Sessanta e Settanta, ne aveva intorno al mezzo milione, negli anni Ottanta più di 600mila. Per un confronto: oggi, il Pd conta circa 400mila iscritti; la Lega Nord ne fa poco più di 100mila. E nel frattempo la popolazione dell’Italia è pure aumentata (dal 1946 di quasi il 30 per cento).
Gli iscritti, del resto, all’epoca della Prima repubblica contavano. Eleggevano il segretario, gli organismi dirigenti, e non di rado votavano, direttamente o indirettamente attraverso i loro delegati, le liste dei candidati.
Anche il più monolitico fra i grandi partiti, o se vogliamo il più paternalista, il Pci, dal 1945 al 1990 svolse ben 16 congressi nazionali (in media uno ogni tre anni), preceduti da congressi di federazione in cui gli iscritti eleggevano i delegati nazionali.
Nella nostra Costituzione, del resto, era stato ed è previsto, benché in modo un po’ vago, che i partiti devono essere democratici. Recita l’Articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Fra tangenti e fondi esteri
Nulla venne previsto invece, dai nostri padri costituenti, sulle modalità di finanziamento e la trasparenza dei bilanci (ci furono alcune proposte ma vennero lasciate cadere). E forse non è un caso che proprio qui si palesarono, subito, i problemi.
I partiti italiani ricevevano cospicui finanziamenti esteri, in particolare la Dc dagli Stati Uniti e il Pci dall’Unione Sovietica. Non esistono stime complessive, ma è accertato che solo per le elezioni del 1972 la Cia finanziò la Democrazia cristiana e i suoi alleati con 10 milioni di dollari (circa 6,2 miliardi di lire tempo), ai valori attuali un po’ più di 50 milioni di euro. Quanto al Pci, secondo Valerio Riva (Oro da Mosca, Mondadori, 1999), dal 1950 al 1991 il Pci ricevette dall’Urss, a prezzi 1999, 899 miliardi di lire (circa 640 milioni di euro di oggi); altri 40 miliardi andarono al Psi negli anni in cui era alleato del Pci, 32,5 miliardi al Psiup, 9,5 alla Cgil, 6,5 alla corrente di Armando Cossutta nel Pci (che si opponeva alla svolta atlantista di Berlinguer, dopo la quale ufficialmente il Pci non ricevette più nulla dall’Urss).
È evidente che la questione del finanziamento della politica è talmente importante che si intreccia, in Italia e non solo, con la partita a scacchi della Guerra fredda, cioè con la geopolitica mondiale.
Ma si intreccia anche, ben presto, con il degenerare del nostro sistema imprenditoriale, sia pubblico che privato: giacché partiti così «pesanti» cominciano a finanziarsi anche con il contributo delle imprese, spesso non dichiarato (che si trasforma in tangenti, in cambio di favori). In termini relativi è soprattutto il Psi a percorrere questa strada, anche perché (questa era la loro giustificazione) tagliato fuori dai finanziamenti delle potenze straniere; ma naturalmente le elargizioni arrivano in maniera cospicua anche alla Democrazia cristiana e, in misura più ridotta e con modalità diverse (più periferizzata e meno personalizzata), al Pci-Pds; così come a quasi tutti gli altri partiti minori, specie di governo.
Questo sistema di finanziamento illecito ha contribuito al degenerare dei fondamenti dell’economia italiana negli anni Settanta e Ottanta. È una delle cause originarie del nostro declino.
Le tangenti alteravano il mercato, a favore di quanti avevano maggiori contatti politici a prescindere da merito e capacità imprenditoriali, e contribuivano a far gonfiare i costi degli appalti (e spesso anche i tempi): si pensi che i costi di alcune opere pubbliche in Italia (la metropolitana o lo stadio di Milano) potevano arrivare a superare anche di quattro volte quelli di analoghe opere in altri paesi europei, il che si traduceva in esborsi aggiuntivi per l’erario (in totale) di migliaia di miliardi.
Gli incentivi al sistema economico diventavano così perversi, mentre lievitava il debito pubblico (peraltro, nel Sud il sistema di imprese legato al finanziamento illecito era spesso legato a doppio filo anche alla grande criminalità).
Questo è evidente soprattutto negli anni Ottanta, un decennio di crescita in cui la nostra economia era in espansione, dove per questo motivo vi erano tutte le condizioni di contesto per intervenire sui nostri fondamentali (dalla pubblica amministrazione all’istruzione e ricerca, alla concorrenza, a una riforma razionale di welfare e tassazione), dopo il periodo travagliato degli anni Settanta. Ma quel decennio rappresenta invece un’occasione persa per la nostra classe politica, che infatti ne fu travolta. Il problema è che fu un’occasione persa anche per il Paese.
Il finanziamento pubblico
La politica naturalmente non mancò di porsi il problema del finanziamento pubblico ai partiti. La prima legge fu approvata nel 1974 (legge Piccoli), con la sola opposizione dei liberali, imponeva l’obbligo di presentare e pubblicare un bilancio e disciplinava anche il finanziamento privato. L’obiettivo dichiarato era proprio quello di recidere il cordone ombelicate fra i partiti e i poteri economici. Ma l’unica conseguenza pratica fu che a partire da allora una quota, via via crescente, di contributi privati cominciò ad arrivare in nero, alimentando ancora di più la collusione e la corruzione.
La risposta dei partiti, peraltro di comodo, fu di aumentare ulteriormente i finanziamenti pubblici: dal 1974 al 1985 il finanziamento ordinario ai partiti italiani passa da 45 a 83 miliardi di lire, peraltro soprattutto per l’aumento dei contributi regionali, da 15 a 40 miliardi (Il finanziamento alla politica in Italia, a cura di Daniela Piccio, Carocci, 2018).
Si era innescato un circolo perverso. Anche perché nel frattempo i tentativi di introdurre controlli più stringenti sulle finanze dei partiti, come quello della Commissione presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi, finivano abortiti.
La Commissione prevedeva addirittura di aggiungere un secondo comma all’Articolo 49 della Costituzione, su modello della costituzione della Repubblica federale tedesca: «La legge disciplina il finanziamento dei partiti, con riguardo alle loro organizzazioni centrali e periferiche, e prevede le forme e le procedure atte ad assicurare la trasparenza e il pubblico controllo del loro stato patrimoniale e delle loro fonti di finanziamento». Ma come negli anni Quaranta con l’Assemblea costituente, anche in questo caso non se ne fece nulla.
Negli anni Ottanta i partiti ricevevano quindi sia cospicui finanziamenti pubblici, crescenti, sia elargizioni privati sempre più ingenti, e in nero. Riuscendo peraltro a sottrarsi alla possibilità di un effettivo controllo sulle loro finanze.
Non meraviglia che i cittadini a questo punto vollero abolire il finanziamento pubblico, in uno dei referendum del 1993 promossi dai Radicali (che ci provavano da tempo) e da Mario Segni, con oltre il 90 per cento dei voti a favore (e il 77 per cento dell’affluenza).
In Italia infatti il finanziamento ai partiti venne reintrodotto in maniera indiretta, ovvero sotto forma di rimborso delle spese elettorali. I governi di centro-sinistra almeno impongono un più serio obbligo di rendicontazione.
Ma il rimborso viene sganciato dalle spese elettorali (già nel 1999) ed è via via aumentato di importo (solo nel 2002 è più che raddoppiato), mentre si aggiungono nuove distorsioni (nel 2006 l’ammontare del rimborso, che rimborso ormai non è più, viene riferito all’intera legislatura, proprio come se fosse un rimborso; e questo vuol dire che se la legislatura finisce prematuramente i partiti ricevono più soldi).
Difatti, il sistema finisce completamente fuori controllo – ma le due leggi più distorsive sono varate sotto i governi di centro-destra guidati da Berlusconi – e l’Italia diventa un unicum nel panorama occidentale adesso per un altro motivo: la generosità dei contributi, e il modo irrazionale e furbesco con cui vengono erogati.
In venti anni, dal 1993 al 2013, i partiti incassano circa 2,7 miliardi di rimborsi pubblici, per spese che però in media sono il 30 per cento di questa cifra. Il resto, 1,9 miliardi di euro, è per intenderci (a valori attuali) più del triplo di quello che il Pci riceve dall’Urss in quarant’anni.
Rispetto a tutto ciò, la legge Monti del 2012 finalmente inverte la tendenza: pone un po’ di ordine, oltreché di morigeratezza, e rappresenta un passo significativo nella direzione giusta. Il contributo pubblico viene dimezzato, da 182 a 91 milioni di euro.
Una parte inoltre (30 per cento) è erogata come cofinanziamento, pari alla metà di quanto il partito riceve dalle quote associative e dalle erogazioni liberali (che sono però computate fino a un massimo di 10mila euro a contributo). Inoltre, e forse soprattutto, la legge stabilisce che per avere diritto al finanziamento i partiti devono dotarsi di un atto costitutivo e di uno statuto, e che questi devono essere conformi ai principi di democraticità interna.
Ma è una normativa che ha vita breve: anziché segnare l’inizio di una storia nuova, resta l’eccezione. Le elezioni del 2013 registrano un boom di consensi per il Movimento 5stelle, che chiede a gran voce l’abolizione del finanziamento pubblico (e vi rinuncia volontariamente).
L’ondata populista arriva ai vertici del Partito Democratico, dove Renzi (i cui toni a quell’epoca sono molto simili a quelli dei grillini) vince le primarie e diventa segretario. Così twittava ad esempio Renzi nel marzo 2013, quand’era ancora sindaco di Firenze: «Ho incontrato stamani i responsabili delle case popolari. Se i partiti rinunciano al finanziamento pubblico sistemiamo SUBITO 10.000 famiglie» (maiuscole sue).
L’abolizione del finanziamento pubblico è uno dei cavalli di battaglia del neo segretario, e l’allora premier Letta, nel dicembre 2013, gioca d’anticipo, approvandolo in consiglio dei ministri.
La situazione oggi (e una proposta)
Da allora il finanziamento ai partiti è volontario, ma ancora a carico della fiscalità generale: nella dichiarazione dei redditi, ciascun contribuente può destinare a un partito di sua scelta il 2 per mille, sottraendolo allo Stato. Rispetto ai 91 milioni della legge Monti, l’ammontare adesso è molto più ridotto, 25,1 milioni come tetto massimo.
Del resto l’opzione è attivata da un po’ meno di 1,4 milioni di italiani (meno di un decimo di coloro che versano l’8 per mille alle confessioni religiose), per un totale effettivo di 19 milioni di euro; il resto torna allo Stato. I partiti più beneficiari per numero di elargizioni sono il Pd (quasi mezzo milione di contribuenti), seguito dalla Lega (264 mila), da Fratelli d’Italia (164mila) e poi da Rifondazione Comunista (54mila).
In teoria anche in questo caso sono richiesti requisiti di democrazia interna (infatti il Movimento 5stelle ne è escluso, al momento), ma poi in pratica ciascun partito nel suo statuto può dotarsi delle regole che preferisce, o quasi, e difatti l’applicazione risulta piuttosto lasca (solo il Movimento 5stelle ne è escluso).
Inoltre il contributo varia, come c’è da aspettarsi, in base ai redditi dei gruppi sociali che il partito tende a rappresentare: così la forza con più elargizioni pro-capite è Azione di Carlo Calenda (24 euro a contribuente), seguita da Forza Italia (18 euro) e da Italia Viva (16). Il Partito democratico è a 15, Fratelli d’Italia a 13, la Lega a 11. Rifondazione Comunista a 10,6.
Non sono differenze eclatanti. Ma dicono molto sul posizionamento delle attuali forze politiche più di tante analisi (e anche sulle difficoltà del PD nel recuperare i consensi del tradizionale elettorato di sinistra).
Il problema di fondo è che l’attuale sistema, mettendo insieme due criteri diversi, perde di coerenza: i contributi volontari sono certo importanti e andrebbero salvaguardati, ma non si vede perché debbano essere sottratti dalle tasse che ciascun cittadino è tenuto a pagare.
Come ha proposto Andrea Capussela, un sistema coerente (e in linea con i principi di una democrazia liberale) manterrebbe i contributi volontari, ma a condizione che siano volontari per davvero: non ricavati dalla quota che paghiamo di tasse. ù
In aggiunta, ci vorrebbe un sistema di finanziamento pubblico, in base ai voti ottenuti, pagato quello sì con le nostre tasse: ma vincolato per questo a regole ben precise di democrazia interna (stabilite per legge entro un ventaglio uguale per tutti, e non da ciascun partito a suo piacimento: il modello di statuto deve essere comune).
Questo finanziamento arriverebbe ai partiti secondo un principio egualitario (ciascun voto, la stessa cifra) che è lo stesso che regola la vita democratica. Sarebbe poi utile destinare una parte di queste somme esclusivamente alla vita delle fondazioni e ad attività di ricerca, ma a condizione che siano anch’esse chiaramente definite (secondo criteri di eccellenza uguali per tutti, come nelle università): fondazioni vere, insomma, che svolgano studi e si colleghino alla società civile, non artificio per canalizzare fondi extra e a volte poco limpidi. Il finanziamento privato volontario invece non dovrebbe essere sottoposto a questi vincoli, ma ovviamente (come già avviene) limitato a un ammontare massimo pro-capite e soggetto a obblighi di trasparenza.
Da notare poi che con l’abolizione del finanziamento pubblico l’Italia è andata in controtendenza rispetto a tutto il resto dell’Unione Europea. Qui infatti fra gli anni Settanta e Duemila quasi tutti i paesi hanno introdotto il finanziamento pubblico ai partiti, su modello della Germania che era stata la prima nel 1959: chiedendo in cambio un attento controllo sulle finanze dei partiti e in alcuni casi (come appunto in Germania) anche garanzie sulla loro vita democratica.
I grandi partiti di massa del Novecento difficilmente torneranno, perché legati a condizioni economico-sociali (la fabbrica fordista) e culturali (le grandi ideologie, che davano senso alla vita) che oggi, piaccia o meno, non ci sono più. Ma i partiti ci sono ancora, sono ancora vitali per ogni democrazia e per la qualità della nostra politica.
Dobbiamo dotarci delle istituzioni e delle regole che li facciano funzionare meglio. E questo, a ben vedere, è anche un buon modo per contrastare l’anti-politica e la demagogia.
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