Tra le dichiarazioni di Claudio Descalzi, ad dell’Eni, spicca quella che annuncia che la fusione nucleare a confinamento magnetico sarà industrializzata tra otto anni.

Il progetto del Commonwhealth Fusion Systems (Cfs), cui partecipa Eni, promette di arrivarci in pochi anni e, anche su queste aspettative, è riuscito a raccogliere circa 2 miliardi di dollari di fondi. L’affermazione che la tecnologia sia «dietro l’angolo» è però ancora tutta da dimostrare.

Il progetto più rilevante è quello di Iter, il reattore sperimentale in costruzione in Francia, cui partecipa anche l’Italia in un’ampia cooperazione internazionale.

Il progetto prevedeva la sperimentazione della fusione dal 2025 per un decennio – ma è già stato annunciato un sostanzioso ritardo – periodo dopo il quale iniziare a progettarne il prototipo industriale.

La commercializzazione, secondo l’ex direttore di Iter Bernard Bigot scomparso lo scorso anno, non sarà disponibile prima del 2060.

L’anno scorso Descalzi, davanti al Copasir (il comitato parlamentare che vigila sull’intelligence) affermava che «si è testato il confinamento magnetico».

Non è d’accordo il fisico Giuseppe Cima, per il quale «l’esperimento in questione è stato invece un test di elettrotecnica, la prova di un prototipo di una bobina isolata, un dettaglio che in altri tempi la stampa avrebbe ignorato perché praticamente irrilevante per la fattibilità di un reattore a fusione».

Acqua dal mare

Una seconda affermazione di Descalzi, sempre al Copasir, è priva di fondamento, cioè che il combustibile per la fusione è abbondantissimo e «si estrae dall’acqua di mare».

Gli isotopi dell’idrogeno utilizzati per questi esperimenti di fusione sono il Deuterio – relativamente abbondante, si trova anche nell’acqua di mare – e il Trizio, elemento radioattivo, che invece non esiste in natura se non in tracce, e che ha un tempo di dimezzamento di circa dodici anni.

Alcuni fautori della fusione pensano di produrre il Trizio a partire da una reazione con il Litio – elemento su cui c’è già qualche concorrenza - nello stesso reattore a fusione, che però ancora non esiste. Un paradosso dell’uovo e della gallina.

La questione dell’effettiva disponibilità del combustibile per la fusione è estremamente critica, come ha notato Daniel Clery sulla prestigiosa rivista Science (Out of Gas, giugno 2022).

La quantità attuale di Trizio disponibile, commenta Clery, è di poche decine di chilogrammi, prodotti dalla ventina reattori nucleari canadesi ad acqua pesante Candu, metà dei quali previsti in dismissione nel giro di un decennio.

Questa limitatissima quantità di Trizio «raggiungerà il picco alla fine del decennio e comincerà a declinare costantemente sia per le vendite che per il decadimento radioattivo, secondo le proiezioni del piano di ricerca di Iter del 2018».

Quantità che basteranno appena per gli esperimenti di Iter. Che il combustibile per la fusione si estragga dall’acqua di mare e sia abbondante, come afferma Descalzi, è dunque doppiamente falso.

Esperimenti

Altri due progetti della “scienza ufficiale” hanno registrato di recente qualche passo avanti. Il JET, inaugurato nel 1984 dalla Regina Elisabetta, ha raddoppiato la potenza di fusione già ottenuta nel 1997. Quello del Lawrence Livermore Laboratory, basato invece sulla tecnologia laser, per la prima volta ha ottenuto una reazione di fusione che ha prodotto – per una frazione di secondo – più energia di quella direttamente assorbita dalla capsula contenente Deuterio e Trizio (ma un centesimo di quella consumata dai 192 laser usati).

Un esperimento scientificamente rilevante, le cui applicazioni dirette riguardano però l’ambito militare per simulare test atomici. Invece, per la produzione di energia da questa tecnologia «ci vorranno molti decenni», secondo il fisico Bon Rosner, già direttore dell’Argonne National Laboratory il quale dichiarava al Bullettin of Atomic Scientist «la fornace nel cielo ha un grande, grande vantaggio. Ha un modo di contenere e comprimere tutto, si chiama gravità. Ed è anche a buon mercato».

Sulla fusione, dunque, qualche passetto avanti che viene venduto come se la tecnologia fosse davvero dietro l’angolo.

Le affermazioni mirabolanti di Descalzi, allo stato dei fatti, sono un esercizio di pura propaganda, per coprire forse la povertà degli investimenti reali di Eni per la transizione energetica.

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