- Il presidente turco Erdogan sta spingendo su americani, russi e siriani affinché gli consentano di estendere la zona di occupazione in Siria e Iraq allo scopo di mettere sotto controllo l’irredentismo curdo.
- Le resistenze da superare sono molte e forse non è interesse di nessuno degli altri protagonisti dell’area rafforzare il leader turco che nel 2023 dovrà affrontare le elezioni.
- In verità è la guerra prolungata che ha creato le condizioni per la saldatura tra partiti curdi
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta cercando il momento propizio per estendere la zona di occupazione in Siria e Iraq allo scopo di mettere sotto controllo l’irredentismo curdo. Ci sono evidenti differenze tra il Pkk, che molti paesi occidentali – non solo Ankara – considerano terroristico, le Sdf e Ypg siriane e i partiti curdi di Iraq.
Tuttavia la situazione caotica di tutta l’area, aggravata dalle conseguenze della guerra in Ucraina, rendono difficile fare distinzioni nell’attuale coacervo di inimicizie generalizzate. Stati Uniti contro Russia e contro Iran, ma alleati di Ankara. Teheran offesa per essere poco coinvolta da Mosca e Ankara in Siria. Ankara e Mosca che cercano un’intesa attorno alla sacca di Idlib. Il regime di Damasco che cerca di usare un alleato contro l’altro ma anche un nemico (gli americani o i jihadisti) contro l’altro.
L’intera regione è divenuta luogo di complotti, falsi amici, diffidenza e sospetti. È un mondo senza regole multilaterali dove gli stati si spezzano: un fragile equilibrio che può degenerare in ogni istante nella guerra di tutti contro tutti.
Il più abile
A questo gioco Erdogan è il più abile ma rischia: sa bene che non può fidarsi del tutto delle milizie siriane (e di altra origine) che pure ha armato. Ha promesso molto e ora deve mantenere: offrire nuove città ai gruppi che tra l’altro non cessano la lotta fra di loro.
Gli serve spazio per mandare a casa decine di migliaia di profughi e alleggerire il suo paese in vista delle elezioni. Così si rafforza una specie di seconda Siria, dissidente e jihadista. Da settimane la Turchia ha messo in campo artiglieria, droni e attacchi aerei contro città nel nord est. L’attacco terroristico a Istanbul del 13 novembre serve da ulteriore giustificazione.
Ad avvantaggiarsi del caos è l’Isis che ritrova spazio di manovra, anche se solo localmente. I turchi insistono sia con gli americani che con i russi: «Dovete capirci». La presenza di Pkk, Sdf, Ypg e curdi iracheni assieme, è divenuta una sfida esistenziale per l’oriente turco e potenzialmente l’emersione di una statualità antagonista.
Ma è stata la guerra (e soprattutto la fase a bassa o media intensità che permane nell’area dal 2018 a oggi) a creare le condizioni per la saldatura dei vari spezzoni curdi. Senza stati né frontiere si aprono spazi per altre forme di sovranità. Erdogan ha abbandonato da anni l’idea del negoziato che pure aveva iniziato con Oçalan e i suoi: forse è giunto il momento per fare un bilancio e comprendere che era la soluzione migliore.
La posizione di Damasco
In effetti con tutti gli eventi bellici della regione e la crisi irachena, il Pkk si è rafforzato. Ora le Sdf curde siriane hanno interrotto le operazioni contro l’Isis (e il controllo dei campi come al Hol) per prepararsi all’offensiva turca.
Di conseguenza anche le pattuglie dell’esercito americano sono state ridotte per non correre il rischio di trovarsi faccia a faccia con l’alleato turco nella Nato. Al Monitor ha fatto lo scoop dell’evacuazione del personale civile americano, compresi i diplomatici, dal nord della Siria verso Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno.
Gli attacchi turchi alle infrastrutture civili (comprese le installazioni petrolifere, le centrali elettriche, i silos di grano e le strutture mediche) hanno consigliato un passo indietro a Washington. Ma Erdogan deve convincere anche i russi che continuano a sostenere Damasco.
Quest’ultima mantiene una posizione ambigua: desidera l’indebolimento dei curdi ma non auspica il rafforzamento della Turchia né l’occupazione di altre terre da parte dei suoi alleati. Per questo la Turchia cerca un riavvicinamento con il regime di Bashar al Assad, auspicato dall’opposizione interna.
I partiti che sfideranno Erdogan nelle elezioni nel giugno 2023, chiedono a gran voce un riavvicinamento per allentare la pressione degli oltre 3,6 milioni di rifugiati siriani sull’economia turca. Ad Ankara, soprattutto dopo la stretta di mano tra Erdogan e al Sisi a Sharm el Sheik alla Cop27, si vocifera di un simile incontro con il leader siriano. Ma quest’ultimo per ora resta fermo sulle sue condizioni: il ritiro delle forze turche dalla Siria e la fine del sostegno ai jihadisti armati.
Forse una nuova offensiva militare a nord est potrebbe diventare una forma di pressione sullo stesso Assad. Ma Damasco per ora resiste: come dicono sulla stampa siriana «non siamo disposti a combattere i curdi per il bene della Turchia». Il regime è riluttante a fare un regalo elettorale a Erdogan e forse spera addirittura nella vittoria delle opposizioni.
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