- Piazze piene, urne vuote? Il commento di Pietro Nenni al risultato del Fronte popolare del 18 aprile 1948 fra meno di due settimane potrebbe attagliarsi – fatte le debite proporzioni – al caso di Eric Zemmour, l’aspirante più citato e discusso all’elezione presidenziale francese.
- Nel comizio tenuto domenica scorsa a Parigi in Place du Trocadéro, Zemmour ha radunato una folla di proporzioni impressionanti – 80-100.000 presenti, secondo le varie fonti – che nessun altro leader politico transalpino saprebbe oggi radunare.
- Eppure il candidato nazionalista non riesce infatti a risalire nei sondaggi. Giorno dopo giorno, anzi, le intenzioni di voto indicano un calo di consensi che lo pone, con il 10 per cento, in una quarta posizione.
Piazze piene, urne vuote? Il commento di Pietro Nenni al risultato del Fronte popolare del 18 aprile 1948 fra meno di due settimane potrebbe attagliarsi – fatte le debite proporzioni – al caso di Eric Zemmour, l’aspirante più citato e discusso all’elezione presidenziale francese.
Reduce dal trionfo del comizio tenuto domenica scorsa a Parigi in Place du Trocadéro di fronte ad una folla di proporzioni impressionanti – 80-100.000 presenti, secondo le varie fonti – che nessun altro leader politico transalpino saprebbe oggi radunare (il tribuno della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon si è fermato a meno della metà), il candidato nazionalista non riesce infatti a risalire nei sondaggi.
Giorno dopo giorno, anzi, le intenzioni di voto indicano un calo di consensi che lo pone, con il 10 per cento, in una quarta posizione condivisa con la postgollista Valérie Pécresse e lo allontana dal sogno di sfidare al ballottaggio Emmanuel Macron.
Apparentemente contraddittori, i due dati appaiono invece agli osservatori del tutto in linea con la strategia che Zemmour ha sin qui messo in atto.
Successo e flop
Giovandosi dell’effetto combinato della notorietà acquisita negli anni presso il pubblico televisivo e giornalistico e della sorpresa provocata dalla decisione di scendere direttamente nell’agone politico, il vivace polemista ha fatto segnare indici di gradimento promettenti, attorno al 15 per cento, al momento della rumorosa irruzione in scena, e le prime settimane della sua campagna hanno avuto i toni della marcia trionfale.
Uno dopo l’altro, un buon numero di esponenti dei Républicains (il partito di Sarkozy) e del Rassemblement national (quello della Le Pen) si sono pronunciati a suo favore, alimentando una dinamica culminata nel coup de théâtre dell’adesione entusiastica di Marion Maréchal, giovane ma già affermata musa dell’opinione pubblica di sentimenti conservatori, che non ha esitato a tradire la zia Marine e il nonno Jean-Marie, nell’esplicita convinzione che solo affidandosi al cantore del romanzo nazionale francese, apologeta di Clodoveo, di Napoleone e del generale de Gaulle, la destra “autentica” avrebbe avuto la possibilità di sconfiggere il fronte progressista incarnato da Macron.
Forse inebriato dal clima di euforia che questi sostegni avevano acceso e dall’inatteso successo del partito dall’evocativo nome Reconquête, messo in piedi in fretta e furia in vista delle future elezioni legislative – 100.000 iscritti raccolti in poche settimane secondo le fonti ufficiali, cifra senz’altro gonfiata ma non completamente peregrina, vista la capacità di mobilitazione testimoniata dalla manifestazione parigina –, Zemmour , ha inasprito ulteriormente i già acuti toni del suo discorso, sperando di fare terra bruciata intorno a Marine Le Pen, accusata di essere diventata «una donna di sinistra» e di aver svenduto il patrimonio ideologico del padre nella vana speranza di sottrarsi alla demonizzazione mediatica.
Infrangendo una serie di tabù, è insorto non solo contro l’eccessiva presenza di stranieri sul suolo francese, facendo propria la teoria del Grand remplacement dello scrittore Renaud Camus, che da molti anni denuncia la “sostituzione etnica” in atto nel paese, ma anche contro l’accoglienza dei rifugiati (che vorrebbe ridurre a cento all’anno) e dei minori non accompagnati, ha ribadito l’esistenza di un nesso causale fra l’immigrazione e l’aumento della delinquenza e ha proposto di imporre una cauzione di diecimila euro per l’ottenimento di un visto d’ingresso e di sottoporre ad una rigorosa selezione le richieste di iscrizione ai corsi universitari di studenti stranieri, «accogliendo soltanto i profili più promettenti nelle filiere utili al nostro paese».
Finendo con il promettere, qualora venisse eletto, la creazione di un ministero della “Remigrazione”, per rispedire nei paesi d’origine almeno centomila immigrati indesiderati ogni anno.
L’obiettivo di questi reiterati affondi provocatori era tracciare una chiara linea di demarcazione tra sé e l’insieme della classe politica, accusata in blocco di aver trascinato da decenni la Francia, per lassismo (la destra “molle”) o per assecondare un progetto ideologico (la sinistra) verso il baratro della perdita dell’identità, e così aggiudicarsi in esclusiva il ruolo di nemico dell’establishment, in una fase storica in cui i segnali dell’insofferenza di ampi settori della popolazione nei confronti delle istituzioni, dal movimento dei Gilet gialli ai cortei contro l’obbligo del pass sanitario, si sono moltiplicati. Ma, a quanto sembra, il bersaglio non è stato centrato.
Questione di classe
I motivi dell’impasse che le inchieste demoscopiche lasciano ipotizzare sono molteplici.
In primo luogo, la figura di Zemmour non appare in grado di esercitare una reale attrazione su quelle fasce di elettorato che non appartengono alla sua stessa classe sociale.
Malgrado l’estraneità al ceto dei politici di professione, la rivendicazione delle origini umili della sua famiglia e l’asserita volontà di riunire dietro di sé la «borghesia patriottica» e le classi popolari, l’eloquio forbito e ricco di citazioni storiche e i modi da intellettuale avvezzo alla frequentazione di ambienti altolocati, per quanto addolciti dai consigli degli esperti di marketing, gli negano quel fascino dell’outsider disposto a condividere le preoccupazioni quotidiane dell’uomo della strada che ha sempre fatto le fortune di ogni leader populista.
Per adottare le categorie di analisi del politologo di Sciences Po Dominique Reynié, inventore della formula del «populismo patrimoniale», il suo messaggio riesce ad attirare quanti si preoccupano della difesa del proprio patrimonio immateriale – la certezza di un’identità culturale, i modi di vita tradizionali – di fronte all’accentuarsi dei caratteri multietnici della società francese, ma rimane estraneo a chi ripone invece le sue inquietudini nella difesa di un patrimonio materiale – il tenore di vita, il potere d’acquisto, i servizi essenziali, la sicurezza nei confronti della criminalità – che vede esposto a una crescente precarietà.
In secondo luogo, l’intento costantemente ribadito da Zemmour di dar vita a un’unione delle destre cozza contro l’aggressività da lui ogni giorno dimostrata nei confronti degli ipotetici futuri alleati.
Per poter approdare al ballottaggio con Macron, il polemista deve superare la concorrenza delle altre due candidate espresse dall’area che vorrebbe fondere, la “repubblicana” Valérie Pecresse e la Le Pen (e di altri due sovranisti di molto minor peso, Nicolas Dupont-Aignan e il sostenitore dell’uscita della Francia da Unione europea ed euro François Asselineau), motivo che lo spinge a farle bersaglio di attacchi sempre più frequenti. Il che nuoce all’immagine di rassembleur che si era costruita nel tempo e lo espone all’accusa, forse non infondata, di anteporre l’orgoglio e l’ambizione personale all’obiettivo unitario formalmente sbandierato.
Con ricadute che rischiano di dimostrarsi ancora più pesanti nella prospettiva delle elezioni legislative del prossimo giugno, dove potrebbe diventare impossibile giungere a liste comuni nelle singole circoscrizioni, trasformando un 30 per cento di voti potenziale in una presenza parlamentare di proporzioni irrisorie.
Troppo a destra
In terzo luogo, l’afflusso nel suo partito di militanti provenienti dai gruppuscoli dell’estrema destra, affascinati dalla franchezza del linguaggio esibito da Zemmour in dichiarazioni e comizi e dalla sua spregiudicatezza nell’additare l’immigrazione e l’islamizzazione come le vere minacce per il futuro del paese, se per un verso gli assicura un notevole sostegno per le tradizionali attività di campagna sul territorio – che in Francia svolgono ancora un ruolo rilevante –, per un altro crea perplessità proprio in quelle frange dell’elettorato “benpensante” che l’ex giornalista trasformatosi in tribuno vorrebbe strappare ai Républicains. E rende un involontario favore a Marine Le Pen, facendola apparire – nell’inevitabile comparazione fra due candidati nazionalisti e sovranisti – molto più moderata e ragionevole nelle analisi e nelle proposte, e perciò più rassicurante.
Se dunque il 10 aprile le tendenze indicate dai sondaggi troveranno conferma, Zemmour sarà costretto a fare i conti con un brusco risveglio dai sogni che per qualche mese aveva coltivato, e a scegliere cosa fare nell’immediato futuro: se ritornare ad esibirsi nei talk show e a scrivere libri, chiudendo un’estemporanea parentesi, o intraprendere la carriera di capopartito. Della quale, sin qui, non ha appreso neppure i più elementari rudimenti.
© Riproduzione riservata