- Le democrazie elettorali hanno sempre sofferto dell’astensionismo, soprattutto quelle sorte non in contrapposizione a regimi fascisti o totalitari.
- A giudicare dalle ultime tornate elettorali, in Italia e altrove, il margine di sorpresa c’è ancora. Ed è probabile che questa sia la sola ragione che rende l’andare al voto interessante ai molti.
- Il ruolo della campagna elettorale del Pd e dei Cinque stelle può essere in queste settimane determinante. Per fare del voto una sopresa inattesa. L’andare a votare fa, il 25 settembre, tutta la differenza del mondo.
Le democrazie elettorali hanno sempre sofferto dell’astensionismo, soprattutto quelle sorte non in contrapposizione a regimi fascisti o totalitari. In queste ultime, invece, la partecipazione al voto fu, comprensibilmente, appresa, insegnata e coltivata come un segno di potere politico dei singoli cittadini. In reazione al voto d’obbligo per un listone o, in alternativa, all’olio di ricino per chi votava partiti di opposizione.
Ma la democrazia americana e quella inglese, nate da rivoluzioni liberali e non contro regimi dittatoriali, conobbero regolarmente l’astensionismo. Negli Stati Uniti a partire dagli stessi anni dell’indipendenza e del processo costituente, nel Diciottesimo secolo. Non molto partecipazionista fu l’Inghilterra. In entrambi i paesi, le lotte per l’estensione del diritto di voto sono state anche cruente, ma la conquista di quel diritto ha come placato gli spiriti e le urne sono state e sono spesso ignorate.
La fine della disciplina
Le democrazie del continente, insediate nel secondo Dopoguerra anche grazie ai partiti organizzati, hanno conosciuto alcuni decenni di alta partecipazione elettorale. Per obbedienza ai partiti di appartenenza, per identità contrappositiva, per assegnazione al voto di una carica ideologica supplettiva.
La fine di quei partiti di guida dell’opinione e di disciplina ha segnato anche la fine della forte e motivava partecipazione elettorale. Finita la disciplina, la cittadinanza è stata catturata da giudizi estetici del regime videocratico («mi piace», «buca il video», «è attraente al pubblico»).
Con questi giudizi non solo declina la disciplina, ma il voto si colora di indicazione di gradimento. Assomiglia sempre più alla preferenza dei sondaggi, che quotidianamente raccolgono le opinioni per non scommettere sull’esito delle elezioni ma per determinarlo.
Fino a quando la sovrapposizione tra il gradimento previsto dai sondaggi e il voto espresso non è perfetta, il suffragio sarà sentito come importante. Il gap tra sondaggio e voto è una benedizione per chi ritiene, ancora, che il voto debba essere un diritto usato e non solo goduto sulla carta.
A giudicare dalle ultime tornate elettorali, in Italia e altrove, il margine di sorpresa c’è ancora. Ed è probabile che questa sia la sola ragione che rende l’andare al voto interessante ai molti, quasi come aprire un uovo di Pasqua: fare del voto una ragione di sorpresa, contro i sondaggi.
Contro i sondaggi
È questo oggi il gusto che spinge gli astensionisti ad andare ai seggi. Certo, questo non vale per tutti. Vale per chi non ha interessi vestiti, ovvero socialmente rappresentati o corporativi. Per questi l’andare al voto è davvero segno di potere, senza desiderio di sorpresa.
Senza tanta fanfara vanno a votare industriali, commercianti, partite Iva, professionisti, tassisti, bagnini e così via, ovvero tutti quei cittadini che non sono semplicemente singoli elettori, ma elettori appartenenti a categorie che hanno potere, economico e sociale, e usano la politica per proteggerlo.
Questa cittadinanza corporativa è quella che oggi dà il voto all’alleanza delle destre (e forse ai limitrofi centristi). Questa destra, quasi sottotono rispetto a quella roboante della stagione emergente di Matteo Salvini, non vuole né cerca di estendere i consensi oltre le colonne d’Ercole delle corporazioni.
Vince nella misura in cui si assesta come sicura rappresentante di queste categorie. Il resto, gli elettori dissociati, ovvero la massa di voti singoli che non hanno appartenenze sociali di interesse, diventano naturalmente terra di conquista degli altri partiti, quelli che chiamiamo di centrosinistra, in effetti il Pd con i suoi alleati e i Cinque stelle.
Il lavoro di questi ultimi è difficile perché, a parte forse alcuni sindacati, non hanno un legame di rappresentanza con gli interessi vestiti. Di fatto i movimenti più democratici e più liberali sono proprio questi, rappresentanti potenziali di quella parte di società non corporativa, la larga base della cittadinanza democratica.
Interessi di parte e interessi generali
I partiti dell’alleanza di destra sono un conservatorismo in doppio petto: rassicurano le classi sociali che contano che staranno dalla loro parte, che useranno lo stato per loro. La destra è la fazione nel senso classico, una parte che si appropria del governo.
Alla non-destra spetta il compito di esercitare la funzione di rappresentare gli interessi generali: su di essa riposa la difesa della nostra libertà, civile senza dubbio, ma forse anche politica. Schieramento d’ordine di parte e schieramento di garanzia delle uguali libertà, questa è la polarizzazione.
L’astensionismo fa male a questo ultimo schieramento, l’altro ha il suo portfolio di voti certi. Per questo il ruolo della campagna elettorale del Pd e dei Cinque stelle può essere in queste settimane determinante. Per fare del voto una sopresa inattesa. Del resto, la società che sta fuori dal recinto degli interessi vestiti e corporativi è un oceano difficile da misurare e da tenere, e quindi può mandare in tilt anche i più esperti meteorologi. L’andare a votare fa, il 25 settembre, tutta la differenza del mondo.
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