Breve psicanalisi del complesso culturale d'Italia, paese di tifosi conformisti che ha deciso che lo scrittore che vende non può parlare con Bauman e l'influencer non può farsi i selfie con Botticelli.
- Truppe di professoresse democratiche si sono indignate quando, nel 2012, Fabio Volo è stato invitato a parlare al Festival di filosofia nientemeno che del senso delle cose.
- Non si può mischiare l’alto e il basso in un paese che ha fatto le squadre e ha deciso chi può parlare di cosa, un paese dominato dall’immaginario televisivo ma che negli inserti culturali commisera tutto ciò che è al di sotto del catalogo Adelphi.
- Chiara Ferragni agli Uffizi è l’ultimo caso di invasione di campo del pop. L’influencer ha scritto a Beppe Cottafavi: “Parlo sempre e solo tramite i miei social, altri mezzi sono innaturali per me e sembrerebbero poco autentici
C’erano Zygmunt Bauman, Marc Augé, John Searle e Anne Cheng, tra gli stranieri. Ma anche Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Umberto Galimberti e Remo Bodei in rappresentanza del pensiero filosofico italiano.
Era il 2012 e, il 14 settembre, alle 22.30, sotto lo sguardo protettivo della Ghirlandina, il campanile del Duomo, c’era anche Fabio Volo al Festival di filosofia. Fece con me una chiacchierata, per una piazza Grande stracolma, sul tema “Qualcosa di più della vita”. Parlammo di questioni impegnative: dell’essere e dell’avere, della povertà e della ricchezza, del corpo e del cuore: insomma, nientemeno, del senso delle cose.
Truppe di professoresse democratiche s’erano già indignate, all’annuncio della presenza di Volo nel programma del festival, furibonde sui social al grido di cosa abbiamo studiato a fare Platone e Aristotele, Kant e Hegel, qualcuna addirittura Heidegger e Wittgenstein, se poi Fabio Volo partecipa al Festival di filosofia. Non stiamo a cavillare. Sappiamo tutti benissimo di cosa stiamo parlando. Del complesso culturale degli italiani.
Il pop
Tra alti e bassi, sozzerie e roba sublime, la mappa mentale dell’ultimo mezzo secolo della nostra vita passata tra le canzoni, i film, l’arte, la pubblicità, la tv, i video, i social. Piuttosto ricordo che alla cena di gala, Fabio ed io capitammo al tavolo di un Bauman molto più curioso di Volo che dei filosofi, che si divertì moltissimo a chiacchierare con Fabio.
Volo è un ex panettiere di Brescia, non è laureato, non si chiama neanche Volo e parla un inglese fluentissimo, con cui gli è capitato di intervistare anche Noam Chomsky che gli raccontò come l’industria pubblicitaria americana induce i bambini a fare i capricci per farsi comprare le cose. Grazie ai guadagni prodotti dai suoi libri Volo, che è uno dei più letti scrittori italiani, ha comprato un piccolo appartamento a Manhattan dove passa gran parte del suo tempo. Ogni suo libro schizza in cima alla classifica dei libri più venduti, facendo rosicare d’invidia parecchi, quasi tutti, di quelli che vendono di meno. Una catastrofe culturale? Stiamo ai fatti. Quei lettori che l’hanno portato lassù, apprezzano le sue storie, si identificano perché non si sentono giudicati, poco più di cinquant’anni fa non si sarebbero sognati di leggere libri perché erano analfabeti.
Le professoresse democratiche deprecano che la gente legga i libri di Fabio Volo, che non hanno mai letto ma che danno per scontato che siano brutti. Di cattiva qualità? Bel problema questo della qualità, chi lo decide cosa lo sia? Nabokov e Conrad certo lo sono, di qualità. Quanto Parise e Manganelli. Ma Le Carrè? E Fruttero&Lucentini, e Piero Chiara, e Il nome della rosa è alto o basso o li mischia e unisce le due istanze? E come la mettiamo con Montalbano e Saviano e la Ferrante, per arrivare ai giorni nostri? E che posizione abbiamo su Philip K. Dick annunciato nei Meridiani?
C’è una sola certezza nell’ecosistema dei libri: i libri di cattiva qualità sono sempre quelli scritti e pubblicati dagli altri. Insomma, perché Fabio Volo al Festival di filosofia, che non è un convegno né un seminario universitario, ma appunto un festival che si fa in piazza mischiando filosofi, attori e musicisti, fa così tanto incazzare?
Fabio Volo certo filosofo non è ma non è neppure un imbucato. Ha scritto dieci romanzi. Tradotti e venduti (bene) in Germania da Diogenes, che sta tra il bianco Einaudi e il pastello Adelphi.
Quello che fa problema è che Volo ha fatto i soldi non tanto con la radio né con la tv o il cinema, che peraltro in Germania nessuna sa che faccia, ma con i libri. Come osa? Questo è un paese di tifosi che ha fatto le squadre e ha stabilito che Volo non appartiene al campionato della cultura.
È appena successo qualcosa di analogo allo Strega: come osano partecipare gli scrittori di genere? Non pretenderanno mica di vincere con un thriller da trecentomila copie? Se andiamo avanti così, signora mia, finirà che parteciperà anche un romanzo di Fabio Volo. Dopodiché oltre che con Volo non rimane che prendersela con i suoi lettori, che sono in maggioranza lettrici.
C’è un inserto culturale italiano che pubblica una classifica comparata: i libri che piacciono alla gente, come quelli di Volo, o nei giorni di questa strana estate quelli di Veronesi, Dicker, Carofiglio e Ozpetek e Riccardino di Camilleri, e i libri che piacciono a loro dell’inserto. Che sicuramente si sono fatti le ossa sull’omnia di Nietzsche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari.
La cultura italiana non rispetta la cultura popolare, né chi se ne occupa. E detesta i numeri, soprattutto se grandi.
Ama i mediatori
Occorre sempre qualcuno, la maestra, il prete, il capo del partito, l’inserto culturale che ti rassicuri e ti dica come la devi pensare e in quale campionato collocare le figurine. Questo produce il conformismo diffuso nella definizione dei campionati e di chi ci gioca, il moralismo che sostituisce il giudizio estetico, l’ovvio dei popoli, l’ipocrisia collettiva sul canone intellettuale, la paura di esprimere un’opinione per non finire impallinati dai giustizieri dei social.
La cultura popolare è il complesso culturale degli italiani. Un problema psicanalitico. Un complesso di colpa e una nevrosi in tempi plasmati da un ecosistema tecnologico che induce, al contrario, alla disintermediazione. La cultura italiana censura la parola intrattenimento, l’entertainment su cui in America hanno costruito prima l’industria del cinema, ora l’immaginario narrativo globale delle serie tv. E infatti, nonostante la propria dipendenza dalla tv, gli italiani non oserebbero mai chiedere alla cultura di intrattenerli e divertirli, anzi la riconoscono come tale solo se mostra il sopracciglio all’insù dell’istitutrice severa.
«È un paese che tende a prendere sul serio quelli che si prendono sul serio» ci avverte Claudio Giunta nel suo libro su Tommaso Labranca.
La cultura popolare può essere di grande qualità estetica e eccellente scrittura, esempi alla rinfusa italiani e post-italiani: molto Arbore, tanto Corrado Guzzanti, tutti i monologhi tv e live di Stefano Massini, tutto Boris, Elio e Rocco Tanica, Zerocalcare, parecchio Fiorello, certo Checco Zalone, i fratelli D’Innocenzo, ma anche sprazzi dei Vanzina e di De Sica, tra la Virna Lisi di Sapore di mare, “anche questo Natale ce lo siamo levati dalle palle” del primo Vacanze di Natale e l’Isabella Ferrari di Sotto il sole di Riccione.
La storia è lunga.
Era già accaduto con i fumetti. Per poterli leggere senza sentirsi in colpa erano dovuti scendere in campo addirittura Umberto Eco e Elio Vittorini intermediati da Oreste Del Buono. Sul primo numero di Linus. Aprile 1965.
Sentite le loro voci.
Eco: Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente frivola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com’è che hai conosciuto Charlie Brown?
Vittorini: Charlie Brown è venuto per un accidente. Io mi facevo mandare dall’America, da amici che ho lì, i supplementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l’avevo notato perché quelle persone non mi mandavano mai la pagina giusta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mondadori, nel 1958-59, un album ancora di quelli formato «forze di liberazione». Incuriosito, me lo sono fatto dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli. Da allora li ho cercati sempre.
Eco: Tu che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?
Vittorini: Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza andare nel difficile. Io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo.
Eco: Allora secondo te è più artista Schulz?
Vittorini: Certamente. Salinger, resta, se vogliamo, poeta: però non riesce a essere il poeta di una società, rimane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di vista Ring Lardner, l’effettivo creatore del racconto “hot “, o meglio “hard-boiled”, soddisfa meglio certe esigenze di impegno). Salinger è un “patetico” che evade nel mondo dell’infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz dove l'infanzia è il “signifiant”, il veicolo di questo mondo completo che è l’uomo maturo, un po’ come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l’età della pietra.
Vi ricordate quanti intellettuali italiani, dopo non avere letto i fumetti, si vantassero di non guardare la televisione quando Berlusconi grazie alle tv ci stava governando? . Il radar dei nostri intellettuali esprime la propria intelligenza scansando tutto ciò che sia di massa. Tant’è che bisogna attendere fino al 2006 perché la televisione, della cui influenza l’intero paese è dipendente, entri nella letteratura italiana con il capolavoro di Walter Siti Troppi paradisi.
Siti capisce che il piccolo schermo è il luogo cruciale che sterilizza la realtà e che della realtà diventa modello. L’aria del tempo scioglie i sentimenti, le cose, i gesti per trasformarli in eventi mediatici riproducibili e commerciabili. Come faranno su scala esponenziale i social in cui l’influencer, che ci riesce, diventa direttamente il mezzo. Dentro un ecosistema digitale totalmente disintermediato che genera influenza, potere, reddito. Nessuno dei media contemporanei, giornali, siti o tv, ha i numeri, cioè raggiunge tante persone, di un importante youtuber o influencer digitale, broadcaster di sé stesso.
In era digitale, le professoresse democratiche di storia dell’arte si sono incazzate perché gli Uffizi si promuovono su Instagram con Chiara Ferragni in shorts davanti alla Venere di Botticelli, mentre Chiara Ferragni si promuove per “Vogue” Hong Kong e fa foto per fini benefici, su cui ha dimestichezza e talento come dimostra l’importante raccolta fondi per il San Raffaele fatta assieme a Fedez all’inizio dell’epidemia. Con shorts certo sfilacciati e top bianco, perché Ferragni, come Volo, produce identificazione. Non irraggiungibilità.
Secondo il mantra della disintermediazione “se lo vuoi, puoi” chiunque può pensare di vestire “autentico” come Ferragni, così come può pensare di scrivere “semplice” come Volo. Chiara Ferragni, al contrario di Volo, è laureata alla Bocconi e ha 20 milioni di followers su Instagram. Gli Uffizi mezzo milione, chi ha fatto l’affare? Le professoresse forse distratte non ricordano che il Museo del Louvre nel 2018 è riuscito a raggiungere l'impressionante numero di 10 milioni di visitatori grazie al video di Beyoncé e Jay-Z.
Questo il post degli Uffizi.
I canoni estetici cambiano nel corso dei secoli.
L’ideale femminile della donna con i capelli biondi e la pelle diafana è un tipico ideale in voga nel Rinascimento. Magistralmente espresso alla fine del ‘400 da #SandroBotticelli nella Nascita di #Venere attraverso il volto probabilmente identificato con quello della bellissima Simonetta Vespucci, sua contemporanea.
Una nobildonna di origine genovese, amata da Giuliano de’Medici, fratello minore di Lorenzo il Magnifico e idolatrata da Sandro Botticelli, tanto da diventarne sua Musa ispiratrice.
Ai giorni nostri l’italiana Chiara Ferragni, nata a Cremona, incarna un mito per milioni di followers - una sorta di divinità contemporanea nell’era dei social.
Il mito di Chiara Ferragni, diviso fra feroci detrattori e impavidi sostenitori, è un fenomeno sociologico che raccoglie milioni di seguaci in tutto il mondo, fotografando un’istantanea del nostro tempo.
Questo, più sobrio, il post global della Ferragni.
Last night was one for the books Shot the most special project at @uffizigalleries with @voguehongkong and @fif.hk Also guys now It’s the best time to visit museums and @uffizigalleries is one of the most special in the world
Tanti like e cuoricini sull’account di Ferragni, un diluvio di insulti per gli Uffizi.
«Se avessimo avuto Twitter nel Cinquecento, le avremmo cantate ai Medici, come osavano commissionare opere a Michelangelo, invece di lasciare l’arte libera dal vil danaro», son d’accordo con Guia Soncini.
Insomma, ci risiamo. Le professoresse, soprattutto quelle inebriate dal fascino severo di Tomaso Montanari, non solo s’indignano, ma urlano e insultano come haters qualsiasi. Ma perché tutto questo odio verso Chiara Ferragni, una ragazza sveglia che è riuscita a diventare un brand mondiale e globale?
Li facciamo tutti quando visitiamo i musei. Dai. I selfie con i quadri. Nessuno di noi però, davanti a un quadro, fa parlare di sé. È questa capacità di suscitare commenti, fra followers e haters, che muove il denaro.
Finita l’estetica del bello e del sublime ora c’è l’estetica della comunicazione. In questo senso tra Ferragni e Cattelan c’è aria di famiglia.
Gli Uffizi comunicano che l’effetto Ferragni agli Uffizi, nel weekend infuocato di polemiche per la presenza dell’influencer nel celebre museo fiorentino, ha prodotto oltre all’inedito dato degli Uffizi trending topic su Instagram e Twitter, ben 9.312 visitatori accorsi in Galleria tra venerdì è domenica: più 24 per cento rispetto a quello precedente, quando erano stati 7.511. Molte le ragazze. Vestite come Ferragni.
Ho chiesto a Chiara Ferragni un intervento diretto per questa newsletter, mi ha risposto:
«Grazie Beppe, ma non mi sento di scrivere un pezzo del genere. Parlo sempre e solo tramite i miei social, altri mezzi sono innaturali per me e sembrerebbero poco autentici».
Una riposta che meriterebbe un saggio su natura e cultura nell’era del digitale e dell’intelligenza artificiale. Chiara Ferragni è totalmente disintermediata, non accetta mediazioni neanche da sé stessa. Per questo è l’epifania dello spirito del tempo, l’ontologia e la sintesi del pop contemporaneo. È probabile che abbia il ruolo principale. Che lavoro fa? Si chiedono in molti. L’imprenditrice digitale, risponde. «Cos’è vissuto a fare Andy Warhol se ancora non abbiamo capito che la fama in sé è un mestiere e un’arte», chiarisce Soncini.
Allora? Allora non resta che sperare che Ferragni e Fedez e Beyoncé e Jay-Z aiutino anche altre pinacoteche, ugualmente importanti, ma meno famose e meno frequentate del Louvre e degli Uffizi. La Ferragni l’ha già fatto visitando, in Dior, il museo archeologico di Taranto. Pensate a cosa potrebbero fare per fare vendere un po’ di libri? Magari non solo quelli di Fabio Volo.
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