- Google annuncia l’eliminazione da YouTube dei contenuti no-vax; Twitter banna Trump, Facebook dà la caccia ai contenuti “cattivi”. Così rischiamo di applaudire alla censura rincorrendo i danni anziché le loro cause strutturali.
- Frances Haugen, ex dipendente di Facebook, suggerisce due rimedi efficaci e radicali che incidono sullo stesso modello di business di Facebook e compagnia.
- Il terzo rimedio e definitivo rimedio sarebbe l’interdizione della pratica dell’anonimato.
Google annuncia l’eliminazione da YouTube dei contenuti No vax perché rinfocolano diffuse titubanze dannose per chi muore e per l’economia. Twitter da mesi ha serrato il megafono con cui Trump ha seminato l’assalto al Campidoglio. Anche Facebook ha istituito il proprio Ufficio di censura contro i contenuti più cattivi e scostumati, ma nel trio dei social sembra quello messo peggio.
Google infatti non è soltanto social, ma anche motore di ricerca, proprietario del sistema operativo Android e fa quattrini in molti modi, non soltanto rivendendosi i profili.
Twitter è il più piccino (il fatturato vale un settimo di Facebook) ma conta sulla nicchia degli intellettuali battutisti. Facebook è una sorta di equivalente del palinsesto più tipico delle tv generaliste: cucina, gattini e pupi, lunghe riflessioni, smarrimenti, qualche Giordano che saltabecca nello studio perché gli piace farlo strano.
Un social di tal genere ha un solo motore che lo muove: inventarsele di tutte per inchiodare allo smartphone i propri iscritti, aumentare il tempo dedicato, accrescere quantità e dettagli dei dati che, a pro del marketing, raccoglie. Punta su quella situazione magica che i tecnici denominano engagement. Ma mentre a una tv basta e avanza che lo spettatore sia inchiodato alla poltrona, Facebook vuole che reagisca a beneficio del traffico di post, like, condivisioni, perché cresce proporzionalmente il ricavo dei dati di profilo che rivende.
Così, dove Rete 4 t’addormenta, Facebook attraverso l’algoritmo ti stimola invece allo scroll e al clic, come un Salvini cui conviene soffiare sui contenuti di rabbia e di passione.
I rimedi dell’ingegnera Haugen
Dinanzi a una commissione del Senato americano tutto questo lo ha appena spiegato molto chiaro l’ingegnera Frances Haugen, una che se ne intende perché ha contribuito lei stessa e per vari anni a fare funzionare la macchina di Facebook. Zuckerberg ha subito replicato che semmai è lui che gli odiatori da tastiera più danneggiano perché i pubblicitari non amano buttare i loro messaggi fra le fiamme.
Ma il punto, a dire il vero, non è questo perché il suo business non sta nell’infilare spot nel palinsesto, ma nel mietere profili che, comunque ti riesca di raccoglierli, sono sempre buoni da rivendersi. Quindi nel mondo di Facebook il pubblicitario riesce comunque a essere sereno mirando a connettere le merci nei modi più opportuni e ai profili più coerenti, mentre chi s’angoscia è il mondo politico e intellettuale a causa della spinta social a dividere i cittadini in tribù cliccanti e contrapposte.
Oltre a questa diagnosi, che spiega come le bolle estremistiche siano frutto strutturale dello stesso modello dei business dei social, Haugen si è spinta a suggerire due rimedi. Il primo consiste nell’inoltrare i post ai destinatari secondo un ordine rigorosamente cronologico e non in base alla gerarchia delle “preferenze” di ciascuno che l’algoritmo pretende di censire nella rete. Così il razzista non troverà solo quanto lo rinfocola e il buonista non si verrà ridotto a coccolarsi con sé stesso.
Il secondo rimedio sta nel rendere impossibile la condivisione di link che non siano stati preventivamente aperti, al fine di deflazionarne la diffusione che oggi conta su automatiche adesioni fideistiche se non, spessissimo, sull’intervento di stuoli di account robot.
Sono due rimedi persuasivi, capaci di spingere i social a dismettere i loro modelli di business più brutali perché rispondono a regole “oggettive”, formulabili per legge, e che qualsiasi utente potrebbe controllare. Non siamo, e questo conta anche maggiormente, a discorrere di contenuti “cattivi” da stanare, a costo di sorbirci la censura, come stava accadendo con Facebook in assenza di proposte circa possibili interventi strutturali.
Gli account anonimi
Reso all’ingegnera Haugen tutto l’onore che si merita, suggeriremmo, nel nostro piccolo, un terzo tipo di rimedio: l’interdizione degli account anonimi. Gli account anonimi non sono quelli di chi usa uno pseudonimo ma i tanti di cui neppure Facebook (come dichiara nei suoi report annuali) è in grado di dire se siano persone vere, nomi d’aziende, maschere diverse di uno stesso account oppure semplici account robot che pigliano di mira persone o argomenti.
Facebook mostra di farsene un cruccio, ma è evidente che li sfrutta per pompare le cifre del traffico a beneficio dei ricavi, godendo di un gioco truffaldino che in nessun altro settore industriale o di servizio è consentito. Va da sé che l’interdizione dell’anonimato è realizzabile senz’ombra di problemi incrociando quattro dati ed è anch’essa, di conseguenza, prescrivibile per legge.
Se non che l’anonimato social gode di diffusa approvazione ed è considerato cosa di valore sociale, politico e morale da parte dei tanti cittadini pronti a denunciare i misfatti dell’ufficio ma non a rischiare il posto di lavoro, del ribelle di un paese sotto dittatura, di quelli che, più semplicemente, amano infilarsi mascherati nelle cerchie di un amico per origliarne le vicende.
Ecco perché quando un deputato un paio d’anni or sono se ne venne fuori con l’idea tutti scantonarono. Eppure il ragionamento (di Luigi Marattin) era stringente: l’“anonimato protettivo” è praticato da ogni medium (tv, giornale, radio) con tanto di cappucci e voci contraffatte, ma il redattore conosce il Tizio che protegge e costui sa che se mente corre il rischio confacente. Perché, invece, nei social l’anonimato si trasforma in assoluto, originario e incontestabile?
La risposta è nella sostanza che conviene al social stesso. Nella forma è passata l’idea che offra un’arma agli umili contro i potenti, anche se è vero esattamente il contrario perché ad avvalersene sono quelli che hanno più potere. Infatti attraverso gli account anonimi passano le shit storm e si rinserrano gli elettori negli ovili delle cerchie, come fanno attraverso storni di account anonimi tutte le “Bestie” circolanti, non solo quella del povero Luca Morisi.
Per non dire, poi, che l’anonimato in realtà non regge rispetto agli accertamenti possibili al potere, sia la polizia di un paese democratico siano gli sgherri di una crudele dittatura, oppure i bravi di chiunque abbia denaro sufficiente. Al punto che saremmo pronti a giurare che molti eroi anonimi vengono lasciati correre solo per usarli da infiltrati.
Nessuno dei veri beneficiari dell’anonimato ci ispira simpatia: né i “poteri forti”, istituzionali o di fatto, né le bestioline del marketing elettorale o di mercato, né gli amici malfidati che quando compi gli anni con la faccia vera ti sorridono gli auguri e con quella farlocca sottolineano le rughe sulla tua.
Ecco perché, previo lo sforzo di chiarire come le cose stanno per davvero, sarebbe ovvio che i social garantissero di custodire l’identità di quelli cui rilasciano un account. A beneficio del nesso fra l’affermare qualsiasi cosa e assumere la responsabilità di quello che si dice. Da adulti e non da bambini permanenti che negano il furto della marmellata nel mentre che tengono il dito nella bocca.
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