La presidente (uscente e rientrante) della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha designato Raffaele Fitto come uno dei sei vice-presidenti esecutivi. Molti commenti addomesticati inneggiano a tale altisonante ruolo; ci piace ancora il pennacchio sul cappello. Il nuovo commissario all'Economia sarà Valdis Dombrovskis, fedelissimo della presidente; succederà a Paolo Gentiloni, il cui peso nella Commissione uscente, pur senza pennacchio, era ben maggiore di quello futuro di Fitto.

Altro che presidente, von der Leyen fino al 2029 sarà la regina della Ue. Profitta del motore franco-tedesco ingolfato per disegnarsi la Commissione ideale. Spezzetta abilmente i compiti dei 26 commissari; così sovrapposizioni di competenze e conflitti fra Stati si moltiplicheranno. La sintesi la farà lei che, esperta dei meandri brussellesi, sfrutterà la situazione a vantaggio del suo potere. La cosa non sarebbe per forza negativa, dipende dall'uso che ne farà; per galleggiare, contentando ora questo, ora quello Stato, o per rimettere la Ue sulla retta via da cui s'è sempre più discostata?

La prima è la scelta facile, attraente, di gran lunga più probabile: mediare fra le contrastanti priorità nazionali, da grande power broker. Se le parranno troppo arditi i mutamenti politico-istituzionali per riprendere la rotta verso una “unione sempre più stretta”, fissata all'articolo 1 del Trattato Ue, von der Leyen timonerà la nave verso le acque morte dell'irrilevanza. Anche per gestire il declino ne avrebbe di cose da fare, e di vantaggi da cogliere sul piano, politico, personale anche economico.

La seconda via ha in serbo grandi sviluppi, per la Ue e per lei, se oserà fermare la deriva intergovernativa, tornando alla visione comunitaria prevista dai Trattati. Quella meta non le pare oggi perseguibile? Almeno non divenga impossibile. Se vorrà passare alla Storia, e non all'incasso dei benefici della carriera politica, von der Leyen dovrà scrivere una solenne premessa alla presentazione dei suoi commissari: per richiamarli al dovere di essere «completamente indipendenti nello svolgimento dei loro compiti, nell'interesse generale della Ue (senza) chiedere, né ricevere, istruzioni da qualsiasi governo o istituzione».

Attenersi a tali principi, richiamati nei Trattati e nelle norme, sia la stella polare della nuova Commissione. Che questi, nell'attuale pratica quotidiana, non solo cadano nell'oblio ma siano proprio contraddetti, non esime i membri del Parlamento europeo dal dovere di chiederne, alfine, la piena applicazione.

Il rapporto alla Commissione d'un europeista di provata fede come Mario Draghi ne presuppone il rispetto integrale, altrimenti le sue proposte andranno nel cassetto; tanti ipocriti apprezzamenti sono solo diversivi, se non s'inverano nella pratica di governo. In mancanza della riforma dei Trattati, è questo il “minimo sindacale” per la rotta delineata da Draghi, perfettibile certo, ma che ci porta fuori dall'attuale palude.

Quando fra poco i parlamentari europei metteranno sulla griglia i commissari designati, per approvare la nuova Commissione, dovranno richiedere loro l'impegno solenne ad attenervisi; a tutti i commissari, non solo al nostro Fitto. Certo, la sua appartenenza al governo di Meloni, che ha negato la fiducia politica al nuovo vertice della Ue, lo espone particolarmente. Facilmente le sue scelte rischieranno di subordinare i doveri verso la Ue ad una malintesa lealtà verso il governo che lascia; i cui ministri non mancano mai di sostenere il principio opposto, per cui Fitto dovrà essere la leva con cui Meloni attua le priorità nazionali, in genere anti-europee.

Ovviamente, più di tutti esposta al rischio di privilegiare gli interessi del proprio Stato, per il suo ruolo dominante sulla Commissione, sarà la stessa von der Leyen. Come ha qui scritto Gianfranco Pasquino (18 settembre), davanti alla nuova, mitica Rodi von der Leyen dovrebbe saltare. Ne avrà mai il coraggio? A questa scelta è appeso il destino della nostra Europa.

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