L’ospitata di papa Francesco a Che tempo che fa ha avuto un effetto dirompente, ma è quasi un secolo che i vicari di Cristo sono costretti a misurarsi con i media di massa: una breve storia
«Pronto signor Vespa?».
«Buonasera Santità. […] È una sorpresa che francamente non ci aspettavamo».
Era il 1998. Giovanni Paolo II interruppe con una telefonata in diretta la trasmissione Porta a Porta per ringraziare il conduttore per lo speciale sui suoi vent’anni di pontificato che stavano mandando in onda.
Quel Bruno Vespa che lo aveva intervistato da cardinale e che nell’ottobre del 1978 aveva annunciato in mondovisione quel nome difficile da pronunciare: «Il cardinale Wojtyła, il cardinale primate di Cracovia, che è una delle città più cattoliche del mondo. È questa una scelta, scusate il termine, veramente straordinaria. Ritorna un papa non italiano!». Dalle immagini di archivio presenti nelle Teche Rai Vespa è visibilmente commosso per quella improvvisata pontificia, la prima volta – come scrissero i giornali – di un fuori programma papale che decideva così di iscriversi direttamente nel palinsesto e nella storia della Rai.
La malattia che lo porterà alla morte sette anni dopo, nel 2005, lo stava già affliggendo pesantemente nel fisico e nella voce. La telefonata era stata tutta molto studiata. Dietro alla “apparente” sorpresa che colse il conduttore e gli studi di via Teulada 66 c’era il grande stratega comunicativo e storico portavoce di Giovanni Paolo II Joaquín Navarro-Valls. L’effetto fu rilevante, questo è fuor di dubbio. Come quello che ha innescato l’annuncio dell’intervista di Fabio Fazio a papa Francesco, domenica sera, all’interno del programma di successo di Raitre, Che Tempo che fa, alzando l’asticella delle celebrities ospiti: Obama, Lady Gaga. Ora il pontefice (i video dell’intervista si possono trovare sul sito di RaiPlay).
Quello che occorrerebbe evitare è il grido a cui molti ricorrono quando si parla di storia del papato e media. Lo slogan della “prima volta” è sempre suggestivo e seducente, ma rende tutto enfatico e fa capire poco dei processi. La Rai dal 1954 almeno fino a metà anni Ottanta ha detenuto il monopolio dell’immagine del pontefice. Questa intervista segna sicuramente un passo in avanti nel rapporto tra papa e televisione (e in particolare tra papa e Rai). Tuttavia, è in linea con un suo preciso progetto comunicativo e, più in generale, con il suo programma di pontificato di chiesa in uscita.
Archeologia pontificia pretelevisiva
Se è con Wojtyla che si inizia a parlare di «rivoluzione comunicativa» proprio in riferimento alla sua capacità di essere comunicante a livello globale attraverso le telecamere ed è con lui che si può parlare di papa mediatico, per l’impatto che la televisione ebbe nel suo pontificato, abbattendo una serie di muri della comunicazione vaticana, l’incontro tra pontefici e mezzi audiovisivi va retrodatato di parecchio.
È il 1898 (e non il 1896, come si suole dire, basandosi su una letteratura ormai datata) e i fratelli Lumiere avevano da poco “inventato” il cinematografo quando Leone XIII, il papa della Rerum Novarum, decise di accogliere la richiesta di un operatore inglese: William Kennedy Laurie Dickson, un collaboratore di Edison, concorrente dei fratelli francesi, entra così nei giardini vaticani e imprime su pellicola la figura del pontefice immerso nella quotidianità, anche nell’atto della benedizione, che ora diventava, grazie a quel mezzo, esportabile, atemporale e aspaziale.
È soprattutto durante il pontificato di Pio XII che si assistette a una trasformazione dell’immagine del pontefice, da subito sotto i riflettori dell’Istituto Luce e delle cineprese del Centro cattolico cinematografico: la sua volontà di azione diretta sulla coscienza degli uomini in una società di massa lo spinse a servirsi di ogni mezzo per far arrivare il messaggio della Chiesa, appoggiando così il suo magistero anche sul sostrato che avevano ormai creato i nuovi messi di comunicazione: rafforzò Radio Vaticana, accolse le prime sperimentazioni sul mezzo televisivo, accettò soprattutto di essere l’attore di se stesso in un film del 1942, Pastor angelicus.
Nonostante il piccolo schermo nasca sotto il pontificato pacelliano, tuttavia è papa Giovanni XXIII il papa della televisione, come lo consacrò «Tv sorrisi e canzoni». Cresce, infatti, attorno a Roncalli un vero e proprio consenso, fin da quei primi giorni di fine ottobre 1958 e il mezzo televisivo si fa medium e contemporaneamente agente di storia: la televisione si inserisce in quel processo, enfatizzando quei gesti, contribuendo a rinsaldare quella partecipazione. Anche papa Giovanni fu attore di se stesso nella Giornata del papa, girato dalla Rai nel 1959: per la prima volta le telecamere della Rai entravano nei luoghi in cui il pontefice viveva la sua vita privata, provando anche a rispondere alla curiosa domanda: «cosa fa il papa tutto il giorno?».
Le interviste
Ripercorrendo così gli ultimi settant’anni si può vedere in modo chiaro come i papi abbiano compreso l’importanza del ricorso ai mass media, superando anche molte pregiudiziali con cui avevano bollato la nascita dei mezzi di comunicazione. Lo hanno fatto con grande prudenza, ad esempio evitando di ricorrere al termine «intervista», come avvenne nel caso di quello che invece fu definito «l’incontro in Vaticano» che era avvenuto nel 1959 tra Montanelli e Giovanni XXIII. Ma già nel 1965 il “Corriere della sera” poteva scrivere senza smentite della intervista concessa da Paolo VI a Cavallari.
E pure nel suo brevissimo pontificato Giovanni Paolo I affermò con convinzione che se san Paolo fosse vissuto ai nostri giorni avrebbe fatto il direttore della Reuters e forse si sarebbe rivolto alla dirigenza della Rai per avere più spazio in Tv (magari ripiegando sulla Nbc).
Poi nel 1994 ci fu grande clamore per il libro-intervista di Giovanni Paolo II curato da Vittorio Messori: ma quasi nessuno ricorda che quel libro fu solo un ripiego rispetto ad un vero e proprio dialogo televisivo che, per ragioni non meglio precisate, non ebbe luogo.
Fu quindi Paolo Frajese, volto storico del TG1, a ottenere una breve intervista con Giovanni Paolo II davanti al suo presepe nell’appartamento pontificio, consentendo per la prima volta alle telecamere di indugiare in una intimità del papa che era considerata inesistente o comunque inviolabile.
Le critiche
È curioso vedere come la notizia della intervista di Fazio a papa Francesco abbia fatto sollevare più di un sopracciglio in questi giorni. L’argomento principale a cui si è ricorsi per criticare questa iniziativa è stata quella di insinuare il rischio di una dissacrazione della figura papale. Ma non si tratta di un rilievo né originale né pertinente, che è figlio soprattutto di chi ha scarsa conoscenza o confidenza con la storia del cristianesimo dal Concilio Vaticano II in qua: un concilio che aveva appunto riqualificato il modo d’essere dei vescovi e, quindi, dello stesso vescovo di Roma.
Molti dei rilievi emersi in questi giorni erano allora già stati mossi a Giovanni XXIII quando usciva dal Vaticano per visitare le parrocchie; a Paolo VI quando aveva preso l’aereo per i primi viaggi intercontinentali e a Giovanni Paolo II quando non disdegnava di farsi fotografare mentre sciava o camminava in montagna.
Su questo, ormai da decenni, i vescovi di Roma hanno dimostrato un approccio molto più laico di tanti commentatori della stampa: Giovanni XXIII, sulla propria agenda, si definiva «un mortale di 103 chili di peso» e tutti hanno ben presente come più volte lo stesso Francesco si sia rapidamente qualificato come un «peccatore».
È dal 1990 che Bergoglio non vede la televisione, salvo alcuni eventi (l’elezione del presidente, l’11 settembre, ecc.). Come ha detto, è una promessa fatta alla Vergine del Carmelo. Non la guarda, ma la usa. Anche come pulpito: alle televisioni italiane papa Francesco aveva rilasciato già alcune interviste: quella a Tv2000, l’emittente della Conferenza episcopale italiana per la conclusione del Giubileo straordinario della misericordia, e la seconda al Tg5 nel gennaio 2021.
I temi
L’intervista con Fabio Fazio, che certo avrebbe potuto cogliere questa occasione per incalzare il papa su temi di più stretta attualità come la crisi russo-ucraina e sullo scricchiolio degli assetti democratici, è servita a Francesco per ritornare su questioni che gli stanno particolarmente a cuore.
A partire dalla crisi migratoria, per la quale il papa ha invocato perentoriamente un invito a fare politica nel senso più alto del termine e cercare quindi una soluzione «continentale» a un problema che non può essere abbandonato alle strumentalizzazioni di determinate forze politiche: strumentalizzazioni che, ha insistito Bergoglio, hanno anche il difetto di essere miopi, perché non prendono atto del dramma che la crisi della natalità sta producendo per il nostro futuro.
Il papa ha quindi toccato il tema della guerra, come prodotto di una cultura che la giudica indispensabile per la massimizzazione di interessi tanto specifici quanto opportunistici, e la crisi dell’ecosistema, che una volta di più mette in luce la drammatica incapacità della politica di svolgere il proprio mestiere, curando un bene comune davvero collettivo e sostenibile.
Come in altre occasioni il papa ha insistito sul tema della misericordia, che ha un valore che trascende la vita di fede: si tratta, ha detto il papa, di un diritto inalienabile di ciascun essere vivente: ed è trasparente la critica a quei sistemi giudiziari che chiudono definitivamente dietro una porta coloro che sono condannati alla pena dell’ergastolo, comminando quella che è, di fatto una pena di morte dilazionata.
È tornato sui mali della chiesa: il chiacchiericcio che distrugge ovunque è praticato («dite in faccia le cose, siate coraggiosi), tema che risuona nella sua omiletica fin dai primi giorni del suo pontificato, e la mondanità («la mondanità spirituale è il peggiore dei mali, peggio dell’epoca dei papi libertini) perché fa crescere il clericalismo, una vera e propria perversione della Chiesa («il clericalismo è una rigidità e sotto ogni tipo di rigidità c’è putredine sempre»).
Poi sono emersi i «segreti»: il sogno da bambino di fare il macellaio, l’obbligo per ogni argentino che si definisca tale di saper ballare il tango, la recita quotidiana della preghiera di San Tommaso Moro per ottenere il dono dello humour.
Ma forse la cosa più importante è quella che ha detto alla fine, quando ha confidato di avere degli amici («pochi ma veri»): perché in questo modo ha smontato l’ultimo grande mito che avvolgeva il papa e cioè quello della sua solitudine. Bergoglio ha detto di non sentirsi solo e che per lui essere a stretto contatto con altre persone è necessario come respirare. Che è un modo come un altro per ricordare a tutti i cristiani che non si è mai tali se non lo si è insieme agli altri.
© Riproduzione riservata