- Federal Reserve e Bce sono alle prese con lo stesso rebus: come si esce dal quantitative easing (QE) cioè dai massicci acquisti di titoli, accompagnati da tassi di interesse nulli o negativi?
- Non ci sono precedenti storici a cui fare riferimento, ma la soluzione è fondamentale per l’andamento dei mercati, la dinamica di inflazione, il livello dei tassi, e in ultima analisi per la sostenibilità del debito, pubblico e privato.
- Rispetto alla Fed la Bce ha però più tempo a disposizione per rinviare una decisione perché l’eurozona ha un tasso di crescita potenziale inferiore agli Usa, maggiori risorse inutilizzate e una dinamica salariale più contenuta.
Federal Reserve e Bce sono alle prese con lo stesso rebus: come si esce dal Quantitative easing (Qe) cioè dai massicci acquisti di titoli, accompagnati da tassi di interesse nulli o negativi? Non ci sono precedenti storici a cui fare riferimento, ma la soluzione è fondamentale per l’andamento dei mercati, la dinamica di inflazione, il livello dei tassi, e in ultima analisi per la sostenibilità del debito, pubblico e privato.
Negli Usa, con aspettative di una rapida ripresa dovute all’accelerazione della campagna vaccinale e alla dichiarata volontà della Fed permettere all’inflazione di superare il tasso obiettivo del 2 per cento per un periodo prolungato, è ripartita anche la crescita dei prezzi al consumo che dall’1,7 per cento di gennaio è arrivata al 5,4 di giugno. In parte è un fenomeno temporaneo, dovuto allo sfogo di una domanda repressa di consumi da Covid (cresciuti nel secondo trimestre al tasso annualizzato record dell’11 per cento), ai colli di bottiglia nelle catene di produzione (interruzioni nei trasporti marittimi; recrudescenza del Covid in Asia; penuria di materie prime e componenti), e al mese di confronto con l’anno precedente (in pieno lockdown). Tutti elementi che si esauriranno nel tempo. Ma è anche vero che la Fed è stata colta di sorpresa dalla dinamica dei prezzi, o volutamente la sottovaluta. Basta confrontare le sue stime di inflazione (basate sull’indice Pce) con l’andamento effettivo: a dicembre prevedeva un’inflazione dell’1,8 per cento per il 2021; stima rivista al rialzo al 2,4 a marzo, poi ancora al 3,4 a giugno, quando già a maggio il dato reale aveva raggiunto il 3,9 (e 4 a luglio).
Decidere di non decidere
Ciò nonostante, nella sua ultima riunione la Fed ha deciso di non decidere: si è limitata a dichiarare che «il momento dell’uscita» si è avvicinato, guardandosi bene dal precisare di quanto. Non convince l’argomentazione che ci siano ancora risorse inutilizzate: a giugno il Pil ha recuperato il livello pre Covid, e alla dinamica attuale ritornerà presto al livello che avrebbe raggiunto non ci fosse stata la pandemia; e il numero di occupati inferiore a quello precedente la crisi mal si concilia con i posti di lavoro che le imprese non riescono a coprire e gli aumenti generalizzati dei salari. A questo punto è illusorio pensare che tutta l’inflazione attuale sia un fenomeno transitorio.
Tanta ritrosia da parte della Fed a disegnare uno scenario di uscita è dettata dalla paura di innescare una crisi finanziaria: vuol dar tempo al mercato di predisporsi al cambiamento, anche se in questo modo rinvia soltanto il problema, come sempre quando c’è una forte discontinuità, dettata dall’incertezza circa una politica monetaria che non ha precedenti. Ma anche dall’obiettivo inconfessabile di mantenere i tassi reali negativi per rendere sostenibile un indebitamento, pubblico e privato, mai così elevato nel dopoguerra.
Un assaggio lo si è avuto quest’anno: con la salita delle aspettative di inflazione, il rendimento sui titoli di stato a 10 anni è passato dall’1 per cento di fine gennaio a 1,75 di inizio aprile causando una caduta del 6 per cento del loro valore (poiché i prezzi si muovono inversamente ai rendimenti), e uno scossone in Borsa visto che il valore dei titoli dipende dall’attualizzazione degli utili futuri (maggiori i tassi, minore il valore attuale). Poi la salita ha invertito rotta e i tassi a 10 anni sono ridiscesi all’attuale 1,24.
Diverse e contrastanti le spiegazioni: la convinzione che la Fed non avrebbe rinviato l’uscita dal Qe accettando un’inflazione più elevata, come poi è successo; l’aspettativa che la recrudescenza della variante Delta, i colli di bottiglia nelle catene di produzione, e l’esaurimento degli elementi transitori dell’inflazione avrebbero raffreddato ripresa economica e dinamica dei prezzi; o il timore che la Fed intervenga troppo e troppo tardi ponendo prematuramente fine alla ripresa (e i tassi reali negativi ne sarebbero la prova).
Il mercato miope
Più ragionevole pensare che il mercato è miopie e non guarda ai trend, ma alle sue accelerazioni e decelerazioni, il che spiegherebbe l’andamento oscillatorio dei tassi visto fin qui.
Ma il trend di crescita, inflazione e salari è al rialzo, seppure abbia rallentato rispetto alle aspettative di qualche mese fa. Il problema è solo rinviato, e quando la Fed deciderà e comunicherà come vuole uscire dal Qe, è più che probabile che ci saranno scossoni sui mercati dalle conseguenze incerte.
Perché uscire dal Qe significa anche dichiarare quanta inflazione oltre il 2 per cento, e quanto a lungo, la Fed sia disposta a tollerare. Quindi, più si rinvia la decisione, maggiore il rischio che inflazione e aspettative si consolidino, e quindi maggiore lo shock quando sarà presa. Inoltre, le aspettative di inflazione che prevarranno, assieme al livello dei tassi deciso dalla Fed, definiranno anche il livello dei tassi reali che sono la variabile cruciale per la sostenibilità del debito.
La Bce è nella medesima situazione della Fed, solo spostata in avanti di circa 9 mesi perché la capacità inutilizzata nell’Eurozona è maggiore; ma con alcune complicazioni in più e una in meno. Come la Fed ha deciso di accettare uno sforamento del 2 per cento fino a che la dinamica dei prezzi non si sia stabilizzata durevolmente a questo livello, e fino ad allora non uscirà dal Qe. Come negli Usa, ripresa, inflazione (a luglio 3,8 per cento il dato tedesco, e 2,2 per l’Eurozona, sopra al target Bce) e utili aziendali crescono più rapidamente delle attese.
La prima complicazione è che i mercati sono integrati e un eventuale aumento del rendimento dei titoli americani spingerebbe al rialzo anche quelli tedeschi, come successo quest’anno. In quel caso la Bce potrebbe stabilizzare lo spread coi mercati periferici come l’Italia, ma non l’innalzamento del livello dei rendimenti nell’Eurozona. Che porta alla seconda complicazione: non c’è un mercato unico del debito pubblico in euro. La Bce può stabilizzarne i differenziali per scongiurare crisi finanziarie, ma non può azzerarli. Questo mantiene il rendimento a lungo termine sul debito pubblico tedesco e di altri paesi ampiamente negativo producendo una dislocazione di risorse (distrugge risparmio previdenziale, inflaziona il prezzo delle attività reali), e di fatto precludendo all’euro il ruolo di moneta di riserva internazionale (che necessita un’attività priva di rischio con rendimento positivo).
Infine, la Bce, usa il Qe e i tassi negativi, ancor più se calcolati al netto dell’inflazione, per rendere sostenibile l’enorme indebitamento di molti paesi, in primis l’Italia; e continuerà a farlo se vuole evitare un’altra crisi. Ma non può farlo all’infinito: lo impediranno le aspettative di inflazione e quanto succederà negli Usa. In quel momento, quali saranno le regole sul debito pubblico dell’euro, dato che quelle del Patto di stabilità sono di fatto morte, anche se ufficialmente sospese? Per la Bce l’uscita dal Qe è quindi un doppio rebus. Rispetto alla Fed la Bce ha però più tempo a disposizione per rinviare una decisione perché l’Eurozona ha un tasso di crescita potenziale inferiore agli Usa, maggiori risorse inutilizzate e una dinamica salariale più contenuta.
Il Qe ha salvato il mondo da crisi e recessioni devastanti: ma per la valutazione finale bisognerebbe aspettare e vedere se e come se ne esce.
© Riproduzione riservata