L’idea dell’educazione di genere come farmaco miracoloso per l’emergenza attuale non mi convince. Credo che l’agency femminile (e, in generale, dei soggetti più deboli) vada rinforzata. Ho pensato in queste ore all’extrema ratio, l’autodifesa, non solo letterale ma anche in termini di consapevolezza, prontezza nel riconoscere precocemente certe dinamiche. Servono strumenti nuovi, dispositivi tecnologici per chiedere aiuto, strutture che consentano di allontanarsi dalle situazioni a rischio
Giulia Cecchettin è stata uccisa brutalmente dal suo ex fidanzato: mentre i social si riempiono di post e storie tutti uguali, di invettive in serie e proposte degli influencer, io mi sento a disagio. Sono cresciuto in una famiglia con gravi problemi di violenza domestica.
Vittima della cosiddetta violenza assistita, sono stato un bambino queer terrorizzato dall’aggressività e dagli abusi che avevo attorno. La paura è stata mia compagna tutti i giorni, per almeno un ventennio. In casa e fuori ero l’anello debole, le ho prese, a dirla tutta, dai maschi e dalle femmine.
Conosco il problema, ne porto ancora i segni, e anche per questo non posso che trovare insufficiente, e forse persino controproducente, la risposta media che sta prevalendo. Risposta veicolata dai creator di Instagram (non userei la parola “attivisti”), i cui termini – semplicistici, unilaterali, autopromozionali – vengono ripresi poi anche da editorialisti e politici. Perché «c’è un’emergenza in corso», «le donne vanno protette», certo, ma sui social soprattutto oggi vogliamo piacere, dunque ci si accoda ai trend, a ciò che si vede funzionare.
La reazione instillata, dicevo, è banalizzante, non specialistica, e piegata alle logiche del personal branding. Più semplifico e polarizzo, e più sarò visto. Che sia utile, tolta la fiammata di indignazione del momento, non è ciò che conta. Il coro dei commentatori digitali in queste ore ha offerto principalmente una soluzione: l’educazione affettiva.
E siccome oggi c’è grande crisi – nell’editoria, nei giornali, nella classe politica – molti si sono affiliati a questo grido, intravedendo nell’educazione di genere, il rimedio impellente per la situazione che abbiamo sotto gli occhi.
L’educazione di genere
Purtroppo, temo non sia così semplice: l’educazione di genere, sia chiaro, è una necessità – anche per molti altri problemi del nostro paese –, ma si tratta di un investimento sul futuro, che potrà credo al massimo, nel corso di generazioni, aiutare a gestire l’entità del fenomeno (gli studi dicono che non funziona sugli abuser adulti).
Inoltre, ci sono grandi aree del nostro paese in cui il tessuto sociale è compromesso, in cui il rapporto con la scuola è compromesso: fare appello a questa panacea, una sorta di manna dal cielo che pioverebbe ovunque, anche lì dove a scuola non si va o dove le famiglie sono afflitte da gravi problemi economici e legali (io vengo precisamente da uno di quei posti), è quantomeno ingenuo.
Un conto è l’educazione di genere ai Parioli, un altro a Rozzano: intenderla come il rimedio per cambiare le cose nell’immediato sembra un feticcio retorico buono giusto per Instagram, qualcosa che dà conforto in uno scenario smarrito in cui a prevalere è un attivismo che in realtà è intrattenimento.
La violenza di genere è più complessa di quel che ci dicono i social, luoghi in cui ogni riferimento all’autodeterminazione e all’agency delle donne in questi casi viene vista come colpevolizzazione (victim blaming). La violenza maschile si lega ad altre questioni, dato che in ballo c’è il desiderio: i maschi problematici non sono solo nemici, ma sono anche le persone da cui sei attratta, che ami, che ricerchi.
Anche per questo tutto è così rischioso e invischiante in questi territori: l’altro è insieme la fonte del bene e del massimo male. È chiaro che, quando si arriva a certi picchi, prevale chi ha forza fisica maggiore (altro rimosso nella prospettiva disincarnata di Instagram), ma il lavoro da fare, in alcuni casi, è biunivoco. Nella mia famiglia, per esempio, era così: è ancora forte in me la sensazione che, da bambino, provavo quando mia madre – anche lei una persona violenta – in modo oscuro, e davvero disturbante, sembrava voler arrivare al punto di rottura, usando ogni risorsa a disposizione per quella sorta di mortifera catarsi che metteva a rischio lei e noi figli.
Una psicoterapeuta, che lavora con le donne maltrattate e fa formazione nelle aziende, di recente mi ha detto che non è raro che le donne vittime di abusi partano già con fragilità, disturbi psicologici o persino di personalità, e c’è una non causale ricerca di certi partner, ma oggi la polarizzazione social ammette solo alcune letture. Pro o contro, buoni o cattivi, rigidamente contrapposti come brand.
I provvedimenti
L’idea dell’educazione di genere come farmaco miracoloso per l’emergenza attuale non mi convince anche perché, nel concreto, si tratterebbe, immagino, di un’ora o due a settimana, che diventerebbe una materia tra le altre, facilmente sommersa nella sciatteria del sistema scolastico che ci ritroviamo. Studiare la storia, purtroppo, non rende cittadini consapevoli delle dinamiche storico-politiche.
Bisogna agire ora, con una serie di provvedimenti contingenti, multilivello, più lucidi e realistici di quello che ci sta dicendo Instagram. L’educazione è un auspicio condivisibile, in generale, ma bisogna prendersi cura nell’immediato delle donne che moriranno domani, l’anno prossimo.
Qualcuno dice che finora si è puntato proprio sulla gestione delle emergenze, e non sulla prevenzione: io dico che lo si è fatto troppo poco. Servono strumenti nuovi, o l’intensificazione di strumenti già usati – anche in termini di strutture e risorse –, per bloccare quello che non è più possibile che accada.
La retorica social che (per evitare dinamiche di colpevolizzazione) non vuole sentir parlare di possibilità attive delle donne, è problematica: le cartoline digitali urlano che sono i maschi e solo i maschi a dover cambiare, ma cosa succede se i maschi, alcuni maschi, non cambiano? La realtà, ancora una volta, resiste alle nostre idealizzazioni digitali.
Credo che l’agency femminile (e, in generale, dei soggetti più deboli) vada rinforzata, e da vari punti di vista. La vittimizzazione assoluta, l’idea che la donna nulla possa fare, cambiare, attrezzarsi (aiutata dalle istituzioni), parlando di rischi in corso, non è funzionale, calandosi nella vita quotidiana. Aumenta i like e le condivisioni, ma non tutela.
Ho pensato spesso in queste ore all’extrema ratio, l’autodifesa, non solo letterale (che può essere un’opzione non accettata o praticabile per tutte), ma anche in termini di consapevolezza, prontezza nel riconoscere precocemente certe dinamiche.
Servono strumenti nuovi, anche in termini di dispositivi tecnologici, più efficaci nel richiedere, con prontezza, l’intervento delle forze dell’ordine, e servono protocolli e strutture che consentano alle donne di allontanarsi immediatamente dalle situazioni a rischio, anche per lunghi periodi (dunque più investimenti, anche per assicurare un’autonomia economica che a volte non c’è).
Le storie dei femminicidi insegnano che spesso denunciare non serve, che i divieti di allontanamento e i domiciliari non servono, ma di fronte alla volontà indefessa di uccidere qualcosa – ora, adesso – bisogna iniziare a fare. Sporcandosi le mani, intervenendo sul campo.
La complessità
Non si può pensare che gli assassini di domani smettano di esserlo con l’autocoscienza: le letture semplicistiche e galvanizzanti dei social danno la convinzione di occuparci dei problemi, ma non è così. Creano falò di indignazione ed empowerment, ma la realtà poi, con le sue opacità, le sue contraddizioni, le sue richieste precise e allo stesso tempo diverse di caso in caso, rimane a guardarci.
Siamo sedati da questa valanga di verbosità polarizzate e performative, fatte di frasi sempre uguali, che occultano la verità delle relazioni concrete, dei corpi immersi nel mondo, che violano e soccombono, nonostante le nostre buone intenzioni e le campagne a mezzo Instagram.
In questo tempo, in cui ognuno è brand di sé stesso, nessuno più vuole dire cose scomode: la bestia nera, più o meno ammessa, riconosciuta, è la perdita della reputazione, l’inciampo rispetto alle aspettative della community.
Questo ci porta a non avere più molto interesse per la complessità, che fa rima con realtà, e ha a che vedere anche con lo studio, la sospensione del giudizio, le proposte magari meno capaci di aggregare consenso ma più necessarie.
Complessità che richiede spesso di sacrificare qualcosa, e non di guadagnare – collaborazioni e sponsor, commissioni e contratti – come accade oggi, a chi sfrutta questi temi per ingraziarsi gli algoritmi.
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