- Alla fine anche l’Italia ha votato per salvare Kristalina Georgieva e tenerla alla guida del Fondo monetario internazionale, nonostante le accuse di aver manipolato i dati quando guidava la Banca mondiale, per favorire, tra gli altri, Cina e Arabia saudita.
- L’indagine interna sul Doing Business ha rivelato, a settembre 2021, manipolazioni tra 2017 e 2018 per fermare la caduta della Cina, che nel 2017 aveva perso sette posizioni.
- Una brutta storia in cui l’Italia ha perso l’occasione per distinguersi e prendere le distanze.
Alla fine anche l’Italia ha votato per salvare Kristalina Georgieva e tenerla alla guida del Fondo monetario internazionale, nonostante le accuse di aver manipolato i dati quando guidava la Banca mondiale, per favorire, tra gli altri, Cina e Arabia saudita.
Nel “voto di fiducia” del board sono stati determinanti oltre all’Italia, Francia, Germania, Cina, Russia mentre Stati Uniti e Giappone erano più ostili.
Il merito della questione c’entra poco, è tutta una questione di rapporti di forza: il Fondo è un’istituzione basata a Washington, per tradizione guidata da un presidente europeo, negli ultimi anni prima Dominique Strauss-Kahn (abbattuto da uno scandalo sessuale), poi Christine Lagarde, oggi alla Bce.
I paesi europei non avevano un candidato alternativo da proporre in caso di dimissioni dell’economista bulgara, in carica dal 2019, con un passato anche da commissaria europea. E così l’hanno salvata, anche se le ragioni per licenziarla c’erano tutte, anche a difesa dell’autorevolezza del Fondo monetario internazionale che durante la pandemia è diventato un punto di riferimento sul monitoraggio delle politiche anti-Covid e degli sforzi economici per mitigare l’impatto sociale.
Lo scandalo
Hanno salvato Georgieva perché non sapevano come sostituirla e perché lei ha respinto ogni accusa. Ma è la sua parola contro una indagine indipendente di uno studio legale, WilmerHale, che ha ricostruito tutte le manipolazioni durante la gestione Georgieva della Banca mondiale. E, soprattutto, al termine dell’indagine interna la Banca mondiale ha deciso di cancellare il suo celebre indice Doing Business, al centro dello scandalo. Non ci potrebbe essere ammissione di colpevolezza più chiara.
La Banca mondiale è una delle istituzioni nate a Bretton Woods nel 1945, gemella del Fondo moentario: la Banca doveva finanziare progetti di sviluppo, il Fondo intervenire a sostegno degli squilibri nelle bilance dei pagamenti con finanziamenti ai paesi indebitati in valuta estera prossimi a una crisi finanziaria.
Col tempo, la Banca mondiale è diventata soprattutto una camera di compensazione tra politiche pubbliche di sostegno allo sviluppo e investimenti privati, uno strumento di influenza per i paesi ricchi (soprattutto gli Stati Uniti, primi finanziatori con il 17,5 per cento del capitale) e un alleato prezioso per molti di quelli in via di sviluppo, a cominciare da quelli poco democratici, con statistiche domestiche giudicate non credibili, e in cerca di una legittimazione esterna.
Il più ambito riconoscimento per i paesi emergenti è scalare posizioni nell’indice Doing Business che misura quanto un paese è accogliente per gli investimenti internazionali: non è che le imprese facciano scelte sulla base di quello, ma per un governo è un argomento prezioso poter vantare ai propri elettori un miglioramento mentre magari i paesi limitrofi arrancano o scendono. Tutta politica, insomma, e dunque tutto manipolato.
Le denunce
Nel 2018, il premio Nobel Paul Romer si è dimesso da capo economista e si è scusato, in un articolo del Wall Street Journal, con il Cile: ogni volta che andavano al governo i progressisti, la Banca mondiale manipolava il Doing Business per far risultare il paese più ostile alle imprese, quando tornavano i conservatori il punteggio saliva subito.
Una interferenza indebita e ingiustificabile, negli interessi probabilmente degli Stati Uniti e delle loro imprese che operano in Cile. Nel 2019 si è dimessa un’altra capo-economista, Penny Goldberg, e in parallelo si è scoperto che da tempo la Banca mondiale cercava di impedire la diffusione di una ricerca che aveva essa stessa commissionato a un proprio economista e a due accademici indipendenti perché i risultati erano sgraditi.
Si scopriva infatti che gli aiuti della Banca mondiale nei paesi poveri favorivano la corruzione, nel senso che all’arrivo di fondi per lo sviluppo corrisponde un aumento dei depositi offshore dell’élite del paese beneficiario.
L’indagine interna sul Doing Business ha rivelato, a settembre 2021, manipolazioni tra 2017 e 2018 per fermare la caduta della Cina, che nel 2017 aveva perso sette posizioni. Nel 2018, dopo un’intensa azione diplomatica, smette di cadere. Per l’Arabia saudita il tema era superare la Giordania, la Banca mondiale manda anche un funzionario per verificare se le riforme giordane esistono davvero, in cerca di una scusa per declassare Amman. Visto che le riforme le hanno fatte davvero, serve una manipolazione più diretta, come quella per negare i miglioramenti dell’Azerbaijan ed evitare che risulti tra i paesi più dinamici.
Tutte le interazioni ricostruite dalle indagini interne tra Georgieva e i suoi sottoposti hanno lasciato tracce, niente è stato fatto con la discrezione tipica di chi fa qualcosa di proibito.
Quello che emerge è che il sistema della Banca mondiale è profondamente corrotto, quantomeno in senso intellettuale, e che Kristalina Georgieva dopo aver avallato quella corruzione è stata promossa e ora confermata alla guida del Fondo monetario, che dovrebbe essere il grande arbitro della globalizzazione. Una brutta storia in cui l’Italia ha perso l’occasione per distinguersi e prendere le distanze.
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