- Dopo la FAQ del governo che, diversi giorni dopo le norme sul “green pass”, le ha interpretate nel senso dell’obbligatorietà anche per le mense aziendali, Confindustria ha a propria volta interpretato la FAQ, sollevando criticità ulteriori: ad esempio, non si potrebbe mangiare nei locali refettorio.
- La certificazione verde nasce per fini – accessi saltuari a luoghi e attività - diversi dall’entrata giornaliera in posti di lavoro, come previsto per le scuole dal 1° settembre. Ciò crea problemi di vario tipo, risolvibili con l’imposizione di un obbligo in via diretta al personale scolastico, come per quello sanitario.
- Confindustria propone l’introduzione di un obbligo vaccinale nei luoghi di lavoro mediante una modifica del Protocollo governo-parti sociali. La soluzione, non unanimemente condivisa sul piano del diritto, rappresenta ancora una volta una scorciatoia rispetto a un obbligo sancito per legge.
Da una forzatura spesso derivano forzature ulteriori. L’uso della certificazione digitale Covid-19 non solo per l’entrata saltuaria in teatri, ristoranti e posti similari, ma anche per l’accesso quotidiano in luoghi di lavoro o mense aziendali, rappresenta la distorsione di uno strumento concepito a fini diversi. Anche la previsione dell’obbligo di vaccino con un atto negoziale, come suggerito giorni fa dal presidente della Confindustria Carlo Bonomi, solleva perplessità.
Confindustria e le mense aziendali
Il 18 agosto scorso Confindustria, in un documento intitolato Il green pass quale condizione per l’accesso alle mense aziendali, ha chiarito una serie di aspetti connessi alla FAQ pubblicata dal Governo su questo tema.
Tra gli altri profili, secondo l’associazione di rappresentanza delle imprese, perché operi l’obbligo di “green pass” serve la presenza sia di un «servizio di ristorazione, sia di un gestore titolato al controllo»; invece, se c’è solo «un refettorio (adibito al consumo di pasti non somministrati dal datore di lavoro, né direttamente né tramite servizio di mensa), sembra mancare il presupposto per l’applicazione dell’obbligo di green pass».
Tuttavia – aggiunge Confindustria – siccome il Protocollo governo-parti sociali (del 24 aprile 2020, aggiornato il 6 aprile scorso) prevede sempre l’uso della mascherina negli spazi condivisi in azienda, «sembra esclusa la possibilità di consumare pasti in compresenza ed in locali comuni». In altre parole, nei cosiddetti locali refettorio non c’è obbligo di “green pass”, ma nemmeno si può mangiare, perché c’è obbligo di mascherina.
È palese la criticità che deriva da questa interpretazione. Diverse aziende non hanno la mensa, ma solo locali adibiti al consumo dei pasti: in questi casi, ci si chiede come e dove i lavoratori potranno mangiare.
Il problema resta ai datori di lavoro, che si trovano di fronte un quadro regolatorio oltremodo complesso: il Dpcm del 2 marzo, che esclude le mense dalle misure previste per la ristorazione commerciale; il decreto-legge di fine luglio (n. 105) – che ne richiama un altro di aprile (n. 52) e fa comunque salvo il citato Dpcm – interpretato da una FAQ circa l’obbligo di “green pass” a mensa; la FAQ - pubblicata ben otto giorni dopo l’operatività dell’obbligo stesso - a propria volta interpretata dal citato documento di Confindustria.
Così le aziende, data la confusione, procedono in ordine sparso: alcune chiedono il possesso di “green pass” anche per accedere ai locali refettorio, nonostante il datore di lavoro non possa effettuare i relativi controlli, come ribadito dal Garante Privacy; altre lasciano che i lavoratori si arrangino, consumando il pasto in condizioni talora non dignitose.
Il “green pass” a scuola
Dal 1° settembre il “green pass” sarà condizione per l’accesso alle attività lavorative in scuole e università. Ma sin d’ora la prescrizione solleva una serie di problemi, derivanti dal fatto che, come detto, la certificazione Covid nasce per occasioni saltuarie.
Le associazioni nazionali dei dirigenti scolastici rilevano, in particolare, difficoltà per l'accertamento quotidiano delle certificazioni verdi di tutto il personale, data anche l'insufficiente disponibilità di risorse; per la procedura di sospensione dei docenti privi di “green pass”; per la nomina dei supplenti temporanei nei casi di sospensione.
C’è poi il tema dei tamponi gratuiti al personale, circa i quali si è fatta molta confusione. Come sottolinea l’Associazione nazionale presidi, «in base alla nota del Ministero dell’istruzione n. 900 del 18 agosto 2021 e in difformità rispetto a quanto riportato nel Protocollo di Intesa del 14 agosto 2021, le scuole utilizzeranno le risorse per effettuare tamponi al solo personale “fragile”».
Ma questo personale è esentato dall’obbligo di “green pass”, come rilevato in un articolo precedente. «A quale indicazione dovranno attenersi i dirigenti scolastici, a quella contenuta nel protocollo o a quella riportata nella nota? Se le scuole devono effettuare una simile attività di screening, chi ne decide la cadenza e i destinatari?».
Molti problemi si sarebbero potuti evitare con l’imposizione di un obbligo vaccinale al personale scolastico, come requisito per lo svolgimento della mansione, analogamente agli operatori sanitari. Come per questi ultimi, anziché controlli giornalieri del “green pass” a tutti, sarebbe bastato l’invio dalla Asl ai dirigenti scolastici degli elenchi dei non vaccinati, cui precludere l’accesso.
Resta ancora irrisolto il paradosso dei luoghi ove il “green pass” è richiesto agli avventori, mentre non è previsto per chi vi lavora. Qualora esso fosse imposto, si immagina che i problemi sarebbero simili a quelli del settore scolastico. Anche in questo caso, un obbligo in via diretta per chi opera a contatto con il pubblico sarebbe la soluzione più chiara, netta e lineare.
Obbligo vaccinale con Protocollo
Qualche giorno fa, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha detto che, siccome le differenze di posizione tra i partiti rendono difficile giungere a una legge sull'obbligo vaccinale, si possono aggiornare i protocolli di sicurezza, senza «gettare la lattina nel campo della politica». Secondo Bonomi, «i sindacati hanno fatto un grande errore, insieme a noi potevamo costruire quello che i nostri padri hanno costruito con la polio».
La soluzione di Bonomi non trova unanime adesione sul piano del diritto. Non solo la Consulta ha affermato che la gestione della pandemia compete allo Stato (sent. n. 37/2021), ma l’art. 32 della Costituzione prevede che solo una legge possa imporre un trattamento sanitario, previo bilanciamento tra interesse collettivo e interesse individuale. Invece, il Protocollo è un atto negoziale.
Tuttavia, come spiega ADAPT (Associazione per gli studi sul diritto del lavoro), siccome la legge richiama il citato Protocollo governo-parti sociali (art. 29-bis, d.l. n. 23/2020) - disponendo che i datori di lavoro adempiono all’obbligo di tutelare la salute dei lavoratori (art. 2087 c.c.) applicando le misure del Protocollo stesso - il richiamo della legge fa sì che esso diventi parte integrante della legge stessa.
Insomma, «attraverso la tecnica del rinvio della legge alla fonte collettiva il legislatore consegue il risultato pratico dell’efficacia generalizzata dell’atto negoziale». Pertanto, «non è escluso che se le parti sociali dovessero modificare il Protocollo introducendo l’obbligo della vaccinazione – almeno per i settori dove la contrazione dell’infezione da Covid-19 rappresenti un rischio specifico e quindi connesso al tipo di lavorazione – questa integrazione possa contribuire a dare copertura ad un obbligo di legge», nei limiti indicati.
La soluzione lascia perplessi: risulta arduo ritenere che il delicato bilanciamento di valori e interessi che la Costituzione affida al legislatore statale per l’imposizione di un trattamento sanitario possa essere demandato alle parti sociali.
Per evitare incertezze in punto di diritto servirebbe una chiara scelta normativa, motivata in modo fondato. Si dice che la variegata maggioranza di governo non la consentirebbe: basta questo per giustificare soluzioni giuridicamente forzate?
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