Dice il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant: «Hamas come formazione militare non esiste più». Prendendo alla lettera le sue parole, e nonostante i legittimi dubbi, c’è da chiedersi allora perché nonostante il raggiungimento dell’obiettivo dichiarato proseguano i bombardamenti come quello di ieri che ha provocato diciannove vittime in una zona umanitaria, segnatamente il campo di al-Mawasi nell’area di Khan Yunis.

Fedele alla linea a cui assistiamo ormai da undici mesi, la solita giustificazione è la presunta presenza di tre terroristi mescolati alla popolazione civile. Come se fosse accettabile. Se Israele ha potuto reiterare all’infinito questa scusa è per la sostanziale impunità di cui ha goduto.

Alle proteste, alle “condanne” arrivate dall’Onu, dall’Unione europea (ma solo in modo sparuto dagli Stati europei), talvolta persino dagli Stati Uniti, non sono mai seguiti fatti concreti per fermare, o almeno limitare, un’offensiva che ha provocato stragi di donne, anziani, bambini fino ad arrivare alla mostruosa cifra di poco meno di trentamila morti civili. Ma si sa, nell’esecutivo di Gerusalemme c’è chi pensa, e lo afferma in pubblico, che ogni palestinese è un terrorista.

È vero che spesso Hamas usa i civili come scudi umani, i suoi miliziani si nascondono tra la folla. Eppure ci deve pur essere una differenza tra i metodi di un’organizzazione terroristica e quelli di uno Stato che si vanta di essere l’unica democrazia del Medioriente e dovrebbe tenere per caro la vita degli innocenti.

Gallant non è peraltro nemmeno tra i falchi dell’esecutivo di Benjamin Netanyahu con cui ha avuto diversi dissidi. Ma il governo, premier compreso, sembra ormai in ostaggio del volere del ministro della Sicurezza interna Itamar Ben-Gvir, il leader del partito di estrema destra messianica e razzista “Otzma Yehudit” (Potere ebraico), decisivo per la tenuta della maggioranza.

Il quale non fa mistero della sua volontà di occupazione della Palestina tutta, dal Mediterraneo al fiume Giordano, possibilmente senza arabi, e non manca di soffiare sul fuoco con provocazioni come quando esprime la volontà di costruire una sinagoga sul Monte del Tempio.

La postura muscolare non riguarda soltanto la Striscia di Gaza, si estende ai Territori occupati della Cisgiordania (Giudea e Samaria bibliche) con i continui pogrom dei coloni ai danni degli abitanti, le concessioni per la costruzione di nuove colonie di cui si dice “preoccupata” anche l’amministrazione americana perché di fatto crea sul terreno le condizioni perché uno Stato palestinese non possa nascere.

E provoca tenerezza, oltre a uno sconsolato plauso, l’iniziativa di due uomini di buona volontà delle opposte sponde come l’ex premier Ehud Olmert e Nasser al-Kudwa, il nipote di Yasser Arafat, quando propongono, l’hanno fatto l’altro ieri, un piano di pace per la nascita di due Stati del tutto simile ai molti precedenti. Sarebbe l’unica soluzione possibile ma cozza contro la realtà del solo linguaggio oggi udibile, il linguaggio delle armi che imperversa ormai da undici mesi. Non solo a Gaza o in Cisgiordania.

Bibi Netanyahu, il leader che si vantava di non aver mai cominciato una guerra, in preda a un furore bellicista mutuato proprio da Ben-Gvir, è come se avesse deciso per un regolamento di conti con tutta la parte ostile del Medio Oriente, segnatamente quella sciita, e applica la teoria degli attacchi preventivi sul Libano (siamo prossimi a un’invasione almeno della fetta controllata da Hezbollah?), la Siria, l’Iran.

Senza rendersi conto che il risultato probabile persino in caso di multipla vittoria, non sarà la sicurezza di Israele, ma l’ostilità dell’intero mondo arabo. Basti pensare che in Giordania, Paese con cui esiste un trattato di pace e dove ieri è iniziato un pletorico percorso elettorale che vedrà secondo i sondaggi una crescita dei partiti islamisti, il 66 per cento della popolazione si dichiara a favore dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, e ad Amman è stato aperto un ristorante con il nome della data fatale.

Nessuno ferma Netanyahu. Né finora nulla hanno potuto le oceaniche manifestazioni di dissenso interno, segno di un Paese letteralmente spaccato in due. Ieri il premier ha ricevuto i genitori di un ostaggio morto nei cunicoli di Gaza. Il padre, un rabbino, ha avuto il coraggio di bollarlo come il responsabile della morte di suo figlio, visto che gli innumerevoli tentativi di una trattativa sono stati sepolti anche sotto la pioggia di bombe scatenate sulla Striscia. Quando tacerà il cannone, anche di questo verrà chiesto conto a Bibi da parte del suo popolo.

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