- Due fatti indicano un vero cambiamento nell’approccio alla guerra: l’abbandono, almeno per il momento, delle cruciali sanzioni europee sul petrolio russo e l’ennesima conferma che Eni si prepara a pagare il gas russo secondo le procedure indicate da Vladimir Putin, che prevedono l’apertura di un secondo conto in rubli presso Gazprombank.
- Nel dilemma tra la pace e i condizionatori accesi, posto da Draghi in una conferenza stampa, ora il suo governo, l’Italia e l’Ue stanno scegliendo i condizionatori accesi nella convinzione che siano la premessa della pace.
- Dopo un paio di mesi di fibrillazioni, insomma, siamo tornati esattamente nello stesso schema seguito dopo il 2014: l’illusione che il legame con Putin fondato sui tubi del gas possa permettere ai paesi compratori di energia di condizionare la sua politica in patria e nell’immediato vicinato.
Due fatti indicano un vero cambiamento nell’approccio alla guerra: l’abbandono, almeno per il momento, delle cruciali sanzioni europee sul petrolio russo e l’ennesima conferma che Eni si prepara a pagare il gas russo secondo le procedure indicate da Vladimir Putin, che prevedono l’apertura di un secondo conto in rubli presso Gazprombank.
Le due notizie arrivano all’indomani del viaggio americano di Mario Draghi che, per la sorpresa di molti in Italia, ha tenuto una ferma linea atlantista (armi, sanzioni ecc.) accompagnata da inviti alla pace e alla mediazione.
Possiamo così ormai individuare due approcci alla guerra e alla Russia. Quello degli Stati Uniti di Joe Biden, che dall’inizio o almeno dal discorso di Varsavia di un mese fa, punta al regime change a Mosca: sostenere gli ucraini non solo per resistere, ma per contrattaccare, mentre le sanzioni logorano il sostegno interno a Putin, fino alla caduta del presidente russo. Nella speranza, probabilmente malriposta, che dopo Putin ci sia qualcuno di meglio e non di peggio.
Il regime change all’americana non ha mai funzionato, ma è un impianto politico e militare ben presente nella tradizione di Washington.
L’altro approccio ormai chiaro è quello europeo, con Draghi che si presenta come punto di mediazione in un’Europa che si è finora nascosta dietro il veto degli impresentabili (Orbàn) o degli irrilevanti (Slovacchia, Bulgaria). E questo approccio prevede che Putin ce lo teniamo, niente regime change: si tratta con lo zar, con il criminale di guerra, con il “macellaio”, come lo chiama Biden. E il segnale di distensione arriva sull’unico fronte che ha davvero sempre preoccupato Mosca, quello dell’energia.
Draghi aveva provato a trovare una terza via, ad assecondare le iniziative più autonome dell’Unione europea che avrebbero potuto darle un ruolo da protagonista invece che da comprimario: “cartello” dei compratori per imporre un prezzo unico, diversificazione rapida delle fonti energetiche, disponibilità alla drastica riduzione dell’energia.
Nel dilemma tra la pace e i condizionatori accesi, posto da Draghi in una conferenza stampa, ora il suo governo, l’Italia e l’Ue stanno scegliendo i condizionatori accesi nella convinzione che siano la premessa della pace. Dopo un paio di mesi di fibrillazioni, insomma, siamo tornati esattamente nello stesso schema seguito dopo il 2014: l’illusione che il legame con Putin fondato sui tubi del gas possa permettere ai paesi compratori di energia di condizionare la sua politica in patria e nell’immediato vicinato.
Non ha funzionato e non funzionerà. Ma il regime change all’americana è forse perfino peggio. L’Ue aveva la responsabilità storica di costruire una opzione innovativa, una terza via tra resa ed escalation, ma forse per l’assenza di Angela Merkel, per la campagna di Emmanuel Macron e per il fatto che Draghi ha dietro soltanto l’Italia e non una grande potenza, non ce l’ha fatta.
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