La norma che vieta l’accesso ai seminari agli omosessuali che papa Francesco difende così strenuamente, risale al 2005 e cioè ai primi mesi del pontificato di Benedetto XVI. Se il testo è spaventosamente superficiale, la sua applicazione è ancora peggiore
Il linguaggio è importante, ma non è tutto. Non è che, per fare qualche esempio, se si usano parole gentili e un tono educato si è autorizzati a praticare l’antisemitismo o il razzismo. Per questo è interessante, nel polverone sollevato dalla frase del papa dinanzi all’assemblea dei vescovi italiani, andare a vedere che cosa è davvero in gioco, al di là dell’espressione squallida e omofoba adoperata dal pontefice.
La norma che vieta l’accesso ai seminari agli omosessuali che Francesco difende così strenuamente risale al 2005, e cioè ai primi mesi del pontificato di Benedetto XVI. Essa è contenuta in un breve documento dedicato a esporre «i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri».
Nelle quattro paginette del documento si trova un’esplicita condanna non solo degli «atti omosessuali», ma anche delle mere «tendenze omosessuali», definite «oggettivamente disordinate» e fonte di dolore anche per coloro che ne sono afflitti.
Per questa ragione, «le suddette persone (cioè i gay, ndr) si trovano in una situazione che ostacola gravemente», si legge nell’istruzione, «un corretto relazionarsi con uomini e donne. Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall’Ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate».
Sul piano normativo, il discorso per la chiesa cattolica si chiude in queste poche righe. Le affermazioni che ho riportato non sono corredate infatti di nessun ulteriore argomento: psicologico, sociologico, teologico, storico. Nulla di nulla. Semplicemente si sostiene che i gay non sono in grado, per loro natura, di «relazionarsi in forma corretta con uomini e donne» e che quindi vanno tenuti ai margini della comunità e certamente lontani dagli altari, sui quali sono indegni di salire.
Se la norma è già in sé spaventosa, la sua applicazione concreta peggiora ulteriormente le cose.
La prima difficoltà deriva per i formatori dall’individuazione dei gay da epurare. Su questo piano, chi governa i seminari non può usare mezzi coercitivi per estorcere ai candidati la verità sul loro orientamento sessuale, né possono essere adoperati strumenti come la rivelazione del segreto confessionale e simili.
I responsabili della formazione clericale sono quindi costretti a basarsi soprattutto sulla delazione, sulle denunce che in genere qualche seminarista sporge a danno di compagni che ha sorpreso, ad esempio, a baciarsi o addirittura in un letto insieme. Naturalmente, la denuncia può ben essere originata, e questo è molto frequente in un ambiente nel quale la prossimità è continua e forzata, da invidie, gelosie (anche amorose) o da rivalità di altro genere.
Una seconda fonte attraverso la quale l’omosessualità di un soggetto può venire alla luce è rappresentata da un’ammissione dello stesso seminarista.
A dichiarare spontaneamente la propria omosessualità sono i ragazzi più ingenui e sinceri, quelli che entrano in seminario con le migliori intenzioni e che per questo si sentono in dovere di esplicitare, sperando di venir compresi e aiutati, la loro “tendenza” omosessuale.
I cinici e gli opportunisti si guardano bene dal fare questa ammissione, mantengono un rigoroso segreto sulle proprie inclinazioni affettive e sessuali e vengono premiati spesso con carriere rapide e di notevole successo.
Non è tutto. Come è noto, la chiesa si trova in difficoltà nel trovare nuovi sacerdoti e non può quindi permettersi di scartare giovani reclute per un motivo nella realtà così insignificante e banale quale la loro omosessualità.
Per questo, quando un giovane viene allontanato, in ragione di uno “scandalo”, da un seminario viene rapidamente indirizzato, con la segreta ma indispensabile complicità del vescovo, verso un altro, spesso in una regione diversa, nel quale casomai la severità verso gli omosessuali è notoriamente meno accentuata e dove comunque nessuno tra i seminaristi conosce la storia del nuovo arrivato. La vicenda si conclude con la felice ordinazione del sacerdote, che viene riconsegnato al suo vescovo e subito impiegato nel lavoro pastorale.
In alternativa a questa soluzione vi è la possibilità, prevista dall’istruzione di Ratzinger, di considerare, soprattutto se il candidato si trova all’inizio del suo percorso seminariale, la possibilità di dichiarare la sua una tendenza omosessuale «temporanea», cioè «espressione», si legge nel famigerato documento, «di un problema transitorio, come, ad esempio, quello di un’adolescenza non ancora compiuta».
Ci troviamo insomma dinanzi a un sistema culturale e politico profondamente immorale, che produce e premia gli ipocriti e le spie e discrimina senza una ragione chiara, senza alcun motivo, una buona parte del genere umano.
A chi gli chiedeva che cosa fare dinanzi a questo stato di cose Francesco ha risposto nel modo che sappiamo. Al di là delle parolacce è una replica che non gli fa onore.
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