- Non rido per quello che fa ridere mia figlia: ma non è una questione generazionale, solo di fasi della vita.
- Capisco l’impulso analitico che porta a usare le generazioni come etichette, ma in realtà appiattiscono l’identità di milioni di persone.
- Dovremmo però riflettere sulle potenzialità di mescolare persone di età molto diverse sul posto di lavoro e nelle comunità in un modo che promuova la collaborazione
Mia figlia mi mostra una serie di video divertenti. Rido appena, lei si innervosisce. Mi fa: “Lo sapevo.” Sapeva cioè che non avrei riso, e che, mi spiega, non l’avrei fatto perché non capisco quel tipo di umorismo, e la ragione per cui non lo capisco è che appartengo a un tempo diverso dal suo: non so cosa diverte i ragazzini di oggi.
Fasi, non generazioni
In realtà quel tipo di umorismo lo capisco eccome, e so che funziona, e so anche perché funziona. Ma rido poco. Sebbene sia un umorismo apparentemente nuovo, è in verità qualcosa che, in altra forma, ho già visto nel corso della vita. Mi sono già divertita così.
Quello che ho appena illustrato è un equivoco fondamentale: secondo mia figlia appartengo a un’altra generazione e non ho gli strumenti per capire certe cose, secondo me invece non rido perché sono in un’altra fase della vita. Ho più anni e non vedo la novità.
Non solo. Probabilmente non rido perché siamo in estate e fa caldo, e il caldo mi schiaccia. Non rido perché ho sonno. Non rido perché prendo mia figlia seriamente e dunque non riderei mai solo per darle un contentino. Non rido per molte ragioni personali, legate al fatto di essere Letizia Pezzali. Però superficialmente sì, potremmo dire che non rido perché sono nata nel 1979 e non nel 2012.
Nell’epoca delle etichette facili, il rinnovato interesse per le differenze fra le generazioni occupa un posto d’onore. Sentiamo parlare di categorie anagrafiche e dei loro innumerevoli difetti: adolescenti e ventenni instupiditi dalla natività digitale, trentenni e quarantenni narcisisti e sfaticati, cinquantenni se va bene indifferenti e sarcastici, sessantenni e settantenni privilegiati dalla storia e dunque incapaci di capire la realtà di oggi. Questo per citare alcuni luoghi comuni (o verità, ognuno rifletta da sé).
Le generazioni hanno anche dei nomi, che non ho voglia di usare per vari motivi (i “millennial” e così via). Ma soprattutto forniscono uno scampolo di identità, e non è strano che anche i bambini recepiscano questa forma mentale.
Vita troppo breve
Faccio una piccola premessa personale: fra le mie fissazioni c’è l’idea che la vita sia troppo breve per fingere che sia lunga. Per esempio per mettersi a dividere le persone in base alla manciata di anni di nascita che le separa. Una generazione dura una ventina d’anni, venticinque al massimo.
E cosa sono mai, vent’anni? Perché dovrei riflettere su cosa rende unico e speciale il gruppo umano di persone nate intorno a me? Non eravamo più saggi ai tempi dell’adolescenza, quando vivevamo circondati dai coetanei e non ci sentivamo parte di un bel niente? Drammaticamente diversi dagli altri? (Non dite di no).
Ma capisco lo stimolo analitico iniziale: essere nati in un certo periodo storico influenza la nostra vita dal punto di vista economico, tecnologico e sociale. Influenza il lavoro che avremo, la casa che avremo, se mai l’avremo. Influenza se e quanto potremo studiare, e cosa. Le etichette hanno valore nell’ambito della ricerca sociologica.
Un valore non assoluto, però, e lo sanno anche gli studiosi. Appiattiscono la vita di milioni di persone, eliminano le sfumature, suggeriscono somiglianze dove non ce ne sono. Diventano presto un gioco da spiaggia.
Identificare le differenze
Come mai oggi le contrapposizioni generazionali hanno tutto questo spazio, invece? Amiamo gli insiemi, i raggruppamenti, e appena ne troviamo di nuovi li discutiamo fino a quando siamo tutti in grado di dire se l’etichetta di turno ci rappresenta oppure no. Diremo allora che ci sentiamo parte del gruppo, oppure cercheremo attenzioni dicendo che noi non siamo così: siamo diversi.
Identificare le differenze serve a darsi un volto, e le persone vogliono un volto. In politica qualcuno a volte ama regalarti un’identità forte per poi venderti la soluzione al problema di chi minaccia quell’identità.
Ci piace raccontarci delle storie su chi siamo e su chi non siamo, insomma, un tratto che è parte della natura umana, oggi più che mai. L’identità è sempre attraente, ma è anche paralizzante e segregante. Le identità forti semplificano il lavoro di chi vuole gestire il potere in un certo modo, perché rendono la massa immediatamente leggibile dall’alto. Sono efficienti.
Un’innovazione interessante potrebbe essere percorrere la strada opposta, dimenticare le distinzioni. Tornando alle generazioni, rifletto in maniera teorica sulle potenzialità che emergerebbero dal mescolare persone di età molto diverse, sul lavoro e nelle comunità, promuovendo la collaborazione e scoraggiando la separazione gerarchica, gli stereotipi, la venerazione forzata dell’esperienza o l’esaltazione della giovinezza e della novità apparente.
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