Ci siamo anche stavolta: titolari di bar, ristoranti e stabilimenti balneari che non riescono a trovare lavoratori stagionali. «C’è chi rifiuta anche 1.200 euro al mese!» gridano stracciandosi le vesti. «È colpa dei sussidi!» urlano i ristoratori milanesi. È un grido che non contiene tanto una difficoltà, quanto un moto d’indignazione: c’è gente pigra, debosciata, fannullona che, colpevolmente, preferisce far niente piuttosto che sgobbare per nove ore di seguito, magari sotto il sole, per guadagnare un salario metà del quale, soprattutto nelle grandi città, verrà speso per pagare la stanza dove andare a dormire tra un turno e l’altro.

Cosa ci sia sotto questa indignazione, è facile vederlo: il lavoro non è più un diritto, ma una concessione; lo stipendio minimo non un atto dovuto, ma un dono; il giovane lavoratore non un detentore di diritti, ma un mendicante a cui si regala un’opportunità: e che, scandalosamente, la respinge. Disprezzare il lavoro, qualsiasi esso sia, è diventato un peccato imperdonabile: figuriamoci, poi, rifiutarlo. Di modo che il sussidio diventa non l’elemosina del disperato, ma il privilegio del pigro.

Il lavoratore d’oggi, soprattutto quello giovane, lo si vuole allegro, dinamico, ma soprattutto riconoscente. Del resto, instillare la gratitudine per qualcosa che è anche meno del dovuto è un meccanismo tipico del nuovo capitalismo: prima affamare lentamente e poi compensare, così che quel piccolo palliativo appaia come una grazia. È così che si addomesticano gli animali. L’alternativa alla gratitudine è la colpevolizzazione: allora poi non lamentarti se stai male – si dice al giovane che, spesso paralizzato dall’impotenza o dall’angoscia, “non ha un lavoro e non lo cerca”: la colpa è tua. È uno dei procedimenti tipici del nuovo capitalismo: colpevolizzare il singolo per dinamiche che non dipendono da lui. Sei disoccupato, solo, infelice? È perché sei pigro, inconcludente, poco ambizioso. L’unico con cui devi prendertela sei tu.

Come sulle navi da crociera

La narrazione – questa sì, estremamente boomer – immagina ancora il giovane lavoratore stagionale come uno scanzonato ragazzo che serve pizze per pagarsi gli studi, un volenteroso giovanotto che durante l’estate si fa le ossa per poi incamminarsi su una luminosa strada di successo, al culmine della quale ricorderà a figli e nipoti quanto è importante, se si vuole riuscire nella vita, non starsene mai con le mani in mano, ma “mettersi in gioco, sempre”. Non so quanti, tra quelli che oggi s’indignano, si accorgano di quanto il loro immaginario sia debitore al Berlusconi cantante sulle navi da crociera. È una visione di questo tipo, novecentesca ai limiti della macchietta, che rende le recenti affermazioni di Guido Barilla perdonabili solo sulla base di un difetto cognitivo, una cecità generazionale che impedisce di vedere cos’è oggi il mondo del lavoro.

La privatizzazione dei percorsi formativi tramite lo strumento del master a pagamento ha fatto sì che la platea dei giovani neolaureati sia molto polarizzata: da un lato benestanti ed eccellenze (ovvero chi può pagarsi un buon master o è tanto talentuoso da ottenere una borsa di studio); dall’altro un vasto e silenzioso purgatorio, un nuovo proletariato giovanile totalmente privo di percorsi di avviamento professionale e di qualsiasi rappresentanza politica. Si capisce bene che, in un quadro del genere, tanto il lavoro stagionale quanto il sussidio non sono anticamere propedeutiche o percorsi d’iniziazione: sono casomai, nella maggioranza dei casi, espedienti di sopravvivenza.

E allora, se si tratta di sopravvivere, senza alcun orizzonte di crescita e di trasformazione, perché dovrebbe essere più ragionevole sopravvivere lavorando piuttosto che non lavorando? Perché qualcuno dovrebbe fingere di desiderare qualcosa che non desidera? Non è una perversione sadica quella di pretendere che qualcuno ami qualcosa che non vuole, e che non ha scelto? Siamo, in fin dei conti, in una logica appena al di sopra dello schiavismo: non più alla libertà né alla felicità bisogna ambire, ma alla benevolenza del padrone – le briciole che cadono dalla tavola del ricco. Siamo davvero arrivati al punto in cui ci sembra doveroso separare il tema del lavoro da quello del desiderio?

Come ha scritto Mark Fisher: «La ragione per cui è tanto facile suscitare avversione per i “parassiti del sussidio” sta nel fatto che, nella fantasia dei reazionari, queste persone sono riuscite a sfuggire alla sofferenza cui chi di noi ha un lavoro è invece costretto a sottomettersi. È una fantasia rivelatrice: l’odio nei confronti di chi richiede un sussidio rivela in realtà quanto la gente odi il proprio lavoro. Gli altri devono soffrire come soffro io: è lo slogan della solidarietà negativa, incapace di immaginare una via d’uscita all’immiserimento del mondo del lavoro». Guerra tra poveri, lotta tra prigionieri.

 

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