Nella coscienza collettiva, data la straordinaria partecipazione e mobilitazione pubblica che la sua morte ha innescato, esiste un “dopo-Cecchettin”. Non si può dire la stessa cosa per la politica: un ostinato silenzio del governo avvolge i casi di femminicidio che non cessano di agitare l’opinione pubblica
Uno spartiacque, un caso capace di segnare un prima e un dopo: così il femminicidio di Giulia Cecchettin è stato rappresentato nell’anno trascorso dal tragico ritrovamento del corpo.
Ma, se nella coscienza collettiva, data la straordinaria partecipazione e mobilitazione pubblica che la sua morte ha innescato, esiste un “dopo-Giulia”, si può dire lo stesso dell’azione politica contro la violenza sulle donne?
Poche settimane fa, una tredicenne è precipitata da un palazzo a Piacenza: spinta, secondo l’accusa, dal fidanzato quindicenne. Nella provincia di Bergamo, una diciannovenne è morta accoltellata per mano di un coetaneo e amico. Nel 2024, si contano già almeno cento vittime di femminicidio.
Se tutto è cambiato, perché tutto sembra rimasto come prima? Cosa manca ancora, cosa è mancato nei mesi che ci separano dal novembre 2023?
Il vuoto più vistoso è quello che riguarda la voce delle istituzioni. Un ostinato silenzio del governo, e in particolare di Giorgia Meloni, avvolge i casi di femminicidio che non cessano di agitare l’opinione pubblica. Mentre i provvedimenti per la prevenzione del fenomeno annunciati allora – educazione all’affettività, sensibilizzazione, formazione – sono rimasti nel registro delle buone intenzioni.
Il primo governo guidato da una donna è insomma restato sordo ai segnali della piazza immensa che il 25 novembre dell’anno passato ha urlato la rabbia, il dolore, e la forza di un’insorgenza collettiva. E la posizione di sostanziale estraneità non cambierà con i proclami rituali di pubblico impegno che udiremo in occasione dell’imminente Giornata internazionale sul tema.
Non cambierà per due ragioni. La prima – solo in apparenza paradossale – riguarda la figura di donna di potere che guida e ispira la coalizione di maggioranza. Se il problema della violenza di genere è spesso strumentalizzato in chiave securitaria o affrontato in termini paternalistici dagli uomini leader della destra, nelle donne leader sembrano piuttosto prevalere reazioni di distanziamento e di rifiuto.
Quando Giorgia Meloni evoca esperienze di bullismo e violenza nel proprio passato, o quando punta il dito contro forme di aggressione sessista di cui sarebbe lei stessa vittima in quanto donna in politica, lo fa non in funzione di una solidarietà da costruire con altre donne, bensì per segnalare la «determinazione» che queste esperienze le hanno consegnato per uscire dalla «condizione di facile bersaglio» (così scrive nell’autobiografia), o per enfatizzare la sua forza autonoma nel farvi fronte.
Coerentemente con una visione politica che fa di ogni storia di successo femminile una storia individuale, anziché l’esito possibile di un impegno collettivo, Meloni tende ad allontanare da sé il dramma delle vittime come il riflesso perpetuo di una debolezza da cui liberarsi è compito di ognuna.
In questa visione, nessun intervento coordinato da parte dei poteri pubblici appare legittimo. E ciò permette a un simile modello di emancipazione di coesistere con la cultura gerarchica della destra in tema di famiglia, genere, sessualità. Che è la seconda ragione della riluttanza ad agire contro la violenza.
Combattere il maltrattamento, lo stupro, l’uccisione di donne e ragazze richiede di rovesciare un ordine fondato su diseguaglianze strutturali di genere. Ma questa prospettiva collide apertamente con la difesa di modelli di famiglia e società tradizionali (cioè gerarchiche) che è al cuore del progetto politico della destra.
Con queste premesse, quale cambiamento (dall’alto) è lecito aspettarsi?
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