Lo stop ai test sul vaccino AstraZeneca dimostra quanto siamo lontani dal risultato. Per accelerare, alcuni scienziati propongono di contagiare alcuni individui sani. Ma questo pone mille problemi, non solo etici
- Nella fase 3 delle sperimentazioni, i volontari vengono divisi in due gruppi: un gruppo riceve il vaccino e l’altro un placebo, privo di effetti. Entrambi i gruppi tornano poi a vivere la vita normale, alcuni contrarranno il virus, altri no.
- Un gruppo di ricercatori e attivisti, sostenuti da 15 premi Nobel, propongono di infettare volontariamente i partecipanti che hanno ricevuto il vaccino, un metodo già usato per cercare il vaccino contro il tifo e altre malattie. Contro il Coronavirus, però, non ci sono cure efficaci e nessuno conosce gli effetti di lungo periodo.
- Un possibile compromesso sarebbe infettare soltanto pazienti giovani e sani, ma questo non darebbe informazioni affidabili sul resto della popolazione. Negli Stati Uniti ci sono già 30mila volontari pronti.
Secondo le cifre della Johns Hopkins University, nel mondo ci sono oltre 27 milioni di persone infettate dal Coronavirus, e quasi 900 mila morti. Oltre all’enorme costo umano, l’impatto sull’economia dovuto a restrizioni imposte dalle autorità oppure adottate volontariamente sta avendo conseguenze gravi e minaccia di avere ripercussioni di lungo periodo. Dal Covid-19 non si uscirà fino a quando non troveremo un vaccino efficace.
Il problema è che lo sviluppo di un nuovo vaccino richiede molto tempo. Il processo di sperimentazione clinica di un vaccino comprende varie fasi.
Nelle cosiddette fasi 1 e 2, il possibile vaccino viene somministrato a piccoli gruppi di volontari per testarne gli effetti e possibili reazioni avverse. Se i risultati di queste prime fasi sono buoni, si procede con la fase 3, che coinvolge tipicamente decine di migliaia di volontari in diversi paesi e di diverse età e gruppi etnici.
Nella fase 3, i volontari vengono divisi in due gruppi: un gruppo riceve il vaccino e l’altro un placebo, dopodiché gli individui continuano a vivere la loro vita normale, nel corso della quale alcuni entreranno in contatto con il virus.
Successivamente, i ricercatori procedono a confrontare, tra le persone contagiate, quelle che avevano ricevuto il vaccino e quelle che non lo avevano ricevuto. Affinché il confronto sia scientificamente valido e informativo (per stabilire dosaggio, efficacia, effetti collaterali, etc.), occorre che un numero sufficiente di persone contragga il virus, e perché questo avvenga bisogna aspettare tempi solitamente lunghi, specialmente se le persone adottano comportamenti protettivi che riducono l’esposizione al virus, come per esempio indossare la mascherina ed evitare assembramenti. Capita spesso che le serimentazioni dei vaccini durino cinque o anche dieci.
Attualmente ci sono oltre 37 vaccini anti-Covid in sperimentazione clinica. Di questi, nove candidati sono entrati nella fase 3. Questo fatto ha dell’incredibile ed è una dimostrazione dell’ingegno umano. Tuttavia, la strada è lunga e l’incertezza alta, come dimostrato dalla recente sospensione della sperimentazione del vaccino AstraZeneca-Oxford a seguito della reazione anomala di un partecipante.
La probabilità che un nuovo vaccino si riveli sicuro ed efficace è tipicamente bassa. Secondo alcune stime, per avere una buona speranza di ottenere almeno un vaccino efficace, in media se ne devono sperimentare circa 15-20.
Risparmiare tempo
Al fine di accelerare lo sviluppo di un vaccino per il coronavirus, un gruppo composto da attivisti e accademici ha proposto una soluzione potenzialmente efficace ma controversa: l’attuazione di sperimentazioni di tipo “human challenge trial”. In questo tipo di sperimentazione, i partecipanti ricevono il vaccino e vengono intenzionalmente contagiati con il virus. Questo consente ai ricercatori di risparmiare molto tempo rispetto allo scenario normale in cui i ricercatori devono aspettare che un numero sufficiente di volontari si sia infettato.
Con gli “human challenge trial”, i ricercatori possono testare l’efficacia del vaccino anche nel giro di poche settimane, e con poche decine di volontari.
L’iniziativa è partita da Josh Morrison, avvocato e attivista, e Sophie Rose, biologa, fondatori di 1DaySooner, un’organizzazione nonprofit che in poche settimane ha raccolto la disponibilità di oltre 30 mila volontari disposti a partecipare a una sperimentazione “human challenge”.
Nonostante le obiezioni etiche sollevate dall’infettare intenzionalmente una persona sana, “human challenge trial” sono stati utilizzati per sperimentare vaccini in passato, per esempio per la malaria e il tifo. In quei casi, tuttavia, esistevano medicinali molto efficaci che consentivano ai medici di curare tempestivamente i volontari nel caso si fossero ammalati durante la sperimentazione.
Purtroppo, oggi non esiste una cura efficace per il Covid-19, e questo crea pericoli notevoli (incluso quello di morire) per i partecipanti a sperimentazioni di tipo “human challenge”.
Infettare solo i giovani?
I proponenti della strategia “human challenge” sostengono che i rischi di questo approccio possono essere mitigati con alcuni accorgimenti. Per esempio limitare le sperimentazioni a individui sani tra i 18 e i 25 anni di età, i quali hanno statisticamente rischi molto bassi di contrarre la malattia in forma grave. Inoltre, i volontari verrebbero tenuti sotto costante e attento monitoraggio.
Si spossono così ridurre le obiezioni etiche, ma non è ovvio che una sperimentazione basata su pazienti giovani sia pienamente informativa degli effetti del vaccino su popolazioni anziane e piu’ vulnerabili.
Un’altra obiezione, sollevata da Jeffrey Kahn, direttore del Berman Institute of Bioethics, è che siccome le conoscenze mediche sugli effetti di breve e di lungo periodo del Coronavirus sono molto limitate, è difficile che i partecipanti a sperimentazioni “human challenge” sul Covid-19 possano esprimere un consenso pienamente informato.
Va anche detto, tuttavia, che le sperimentazioni normali dei vaccini contro il Coronavirus comportano anch’esse dei rischi elevati e difficilmente prevedibili per i volontari, e non è ovvio che esporre decine di migliaia di persone a queste sperimentazioni sia necessariamente preferibile a esporre qualche decina di volontari a un “challenge trial”.
I proponenti dello “human challenge” (che includono 15 premi Nobel in discipline che vanno dalla medicina alla chimica all’economia, e oltre cento esperti e accademici, compreso chi scrive) sostengono che dati i costi enormi della pandemia del Covid-19, i potenziali benefici di questo approccio sono superiori ai possibili rischi, e che accelerare l’introduzione di un vaccino sicuro ed efficace genererebbe un beneficio considerevole in termini di vite umane salvate e costi economici evitati.
Il responsabile della reazione alla pandemia del governo americano, il dottor Anthony Fauci lo ha definito un “piano D” a cui fare ricorso soltanto nel caso in cui falliscano tutte le altre strategie, ma l’agenzia statunitense responsablile della ricerca biomedica e della salute pubblica (Nih) ha cominciato a predisporre un ceppo del Coronavirus da utilizzarsi in eventuali sperimentazioni human challenge.
Il dibattito sulle sperimentazioni human challenge è solo un esempio dei tanti dilemmi che la pandemia del Covid-19 ha posto alla nostra società. Rimanendo sul tema dei vaccini, per quanto fondamentale (e complicato), trovare un vaccino sicuro ed efficace è solo il primo passo. Occorrerà poi produrlo in tempi brevi in quantità sufficienti a soddisfare il fabbisogno, e distribuirlo alla popolazione. A chi andranno le prime dosi del vaccino? Ai cittadini dei paesi ricchi, che ne hanno finanziato la sperimentazione e la produzione? E all’interno di questi paesi? E’ giusto vaccinare gli anziani e le altre categorie di persone piu’ suscettibili alla malattia, o è preferibile cominciare dai giovani, i quali sono piu’ frequentemente veicolo di trasmissione del virus?
Sono domande importanti e delicate. Non è la prima volta che le affrontiamo, ma la scala globale di questa pandemia le rende ancora più urgenti.
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