Nel 2008 Berlusconi vinse conquistando una maggioranza bulgara in entrambe le camere. L’alleanza con Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini e Raffaele Lombardo, senza dissidi iniziali, produsse per un po’ successi e consenso.
L’Invencible armada berlusconiana, tuttavia, crollò: dilaniata da lotte intestine sulla leadership, contesa da Berlusconi e Fini, e sulle politiche divisive dei partiti della coalizione.
Non abbiamo assistito solo ad una commedia degli errori, né siamo dinanzi solo a capricci personali, che in politica pesano sempre. I nodi riguardano le policy.
Il neonato governo di Giorgia Meloni sembra aver silenziato le chiacchiere e sedato i conflitti. La velocità delle consultazioni e dell’incarico ricorda la nascita del IV governo Berlusconi (2008-2011). Allora passarono appena otto giorni dalla nomina al voto di fiducia. Molte altre sono le somiglianze.
Entrambe le volte il successo è dipeso dalla postura della coalizione di centrodestra. Nonostante le incognite della legge elettorale – nella resa concreta il porcellum e il rosatellum pari sono – i partiti guidati da Berlusconi allora e ora dalla Meloni hanno saputo interpretare al meglio l’algoritmo della trasformazione dei voti in seggi profittandone.
Nel 2008 Berlusconi vinse conquistando una maggioranza bulgara in entrambe le camere. L’alleanza con Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini e Raffaele Lombardo, senza dissidi iniziali, produsse per un po’ successi e consenso.
L’Invencible armada berlusconiana, tuttavia, crollò: dilaniata da lotte intestine sulla leadership, contesa da Berlusconi e Fini, e sulle politiche divisive dei partiti della coalizione.
Esiziale però fu l’incapacità di governare la crisi economico-finanziaria del 2008, materializzatasi nel braccio di ferro tra il ministro dell’economia Giulio Tremonti (fermo nel tenere stretti i condoni della borsa in coerenza con gli impegni europei) e l’asse che univa il premier e Umberto Bossi (diversamente interessati a compiacere i propri elettori).
Durante l’estate del 2011, Berlusconi fu commissariato dall’Europa, e qualche mese dopo il presidente Giorgio Napolitano lo sostituì con un esecutivo di soli tecnici guidato da Mario Monti.
Scontri di sostanza
Il governo Meloni ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere. Finora non c’è stata la coesione politica necessaria per durare.
Non abbiamo assistito solo ad una commedia degli errori, né siamo dinanzi solo a capricci personali, che in politica pesano sempre.
I nodi riguardano le policy: la collocazione internazionale dell’Italia, la guerra ucraino-russa, l’idea di Europa, i conti pubblici. Il vero spauracchio del nuovo esecutivo sarà soprattutto la decisione di bilancio. Le fratture dovranno comporsi se il governo vorrà affrontare seriamente l’attuale crisi economico-sociale.
A differenza della terribile estate del 2011, però, Meloni ha un vantaggio. Durante la pandemia e fino al 2024 l’Unione europea ha sospeso il patto di stabilità, allentato la disciplina che vieta gli aiuti di Stato e, soprattutto, messo a disposizione molte risorse, che all’Italia hanno fruttato 210 miliardi di euro. Questo scenario è transitorio.
Nuove emergenze si sono aggiunte, indotte dalla guerra, prima fra tutte la crisi energetica e l’inflazione. Bisogna correre ai ripari, e presto.
Di quali idee il nuovo governo intende riempire la legge di bilancio? Risponderà a problemi contingenti? Saprà guardare lontano, fronteggiando i tempi prossimi della nuova austerity?
Riuscirà a negoziare con l’Unione europea quella flessibilità sull’applicazione dei vincoli di bilancio, che né Monti né lo stesso Mario Draghi sono riusciti ad ottenere?
Sulle misure economiche da approvare non ci sono linee comuni. Le ricette – scostamento di bilancio, flat tax, revisione del Pnrr – preludono al peggio. L’esempio britannico è un’ipoteca. Le dimissioni, dopo 45 giorni della premier Liz Truss, sono figlie di Brexit, di un ostinato sovranismo autarchico dei conservatori inglesi, di politiche neoliberiste fuori tempo massimo. Figlie, cioè, di peccati che molti, anche nella nostra Destra, vorrebbero scambiare per miracoli.
Meglio stare in Europa, sembra dirci Londra. Ogni rosa, come si sa, ha le sue spine. Dal trattato di Maastricth del 1992 in poi, la decisione di bilancio è frutto di un accordo tra le cancellerie nazionali e la Commissione europea. La governance integrata valorizza gli esperti e il ministro dell’economia. Il totoministri di queste settimane lo conferma.
Giulio Andreotti lo aveva capito: nel 1976 nominò Vincenzo Milazzo, ragioniere dello stato, capo di gabinetto fino al 1979: «una garanzia e un’indicazione», scrisse nei Diari. Il quadro europeo è ora più complesso.
La premier italiana, se vuole governare bene, non solo dovrà affidarsi a politici esperti capaci, non solo dovrà tenere a freno gli appetiti dei partner, ma dovrà negoziare credibilmente in Europa le linee di un vero e proprio bilancio di guerra. Ritornano i fantasmi del 2011.
I protagonisti della destra di oggi sono in gran parte quelli di ieri. Basterà Giorgia Meloni premier a cambiare la traiettoria di una storia che sembra già scritta?
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