Uno stato democratico assolve il proprio dovere costitutivo quando apre spazi di dibattito pubblico. Invece, con il testo sulla gestazione per altri lo stato chiude col sigillo coartante del diritto penale una questione che sarebbe da dibattere il più a lungo possibile, al netto della sua tendenza a ingenerare conflitti pungenti
Con le sue leggi e i suoi codici, uno stato non segna solamente il confine tra ciò che è vietato e ciò che è permesso. Ben più che gendarme o giudice, lo stato ha strumenti per farsi censore e determinare quel che ritiene buono e cattivo, virtuoso e perverso. Il “reato universale” è uno di questi strumenti: più che tecnica di contenimento e repressione di un illecito, esso è il modo in cui lo stato professa un credo morale e pretende che i cittadini lo facciano proprio, pena il perseguimento in ogni angolo della Terra.
Qualificare un dato comportamento come reato universale significa infatti renderlo perseguibile su tutta la superficie terreste, nonché regione dello spazio, se mai fosse possibile commettere quei reati in assenza di gravità. Per i crimini che lo stato reputa più odiosi e abominevoli, lo strumento del reato universale chiede e pretende che il potere di esercitare la giurisdizione nazionale venga allargato a tutto il pianeta.
E, da mercoledì scorso, la gestazione per altri (Gpa) è reato universale: un cittadino che, per aggirare il divieto italiano, si recasse in un paese dove la Gpa è ammessa e regolata per legge commetterebbe con ciò un crimine penalmente perseguibile secondo la legge italiana. Così facendo, il governo Meloni auspica porre un argine a quella pratica assai diffusa per cui coppie eterosessuali, gay e lesbiche tentano di superare gli ostacoli frapposti dalla legge 40/2004 per soddisfare la propria aspirazione alla genitorialità.
Non stupisce che le forze della sinistra siano attraversate da una lacerante divisione tra chi deplora e chi saluta con favore la scelta del governo. La pratica della Gpa innesca infatti un conflitto tra l’aspirazione di una coppia ad avere figli e il rischio che il corpo e l’integrità psicofisica della gestante siano oggetto di appropriazione e violenza, ancorché involontarie. Alla luce di ciò, sembrano aver meno presa gli argomenti di quei giuristi che dubitano della concreta efficacia del reato in questione.
Per un verso, certo, il limite del reato di Gpa è manifesto: si richiederebbe a uno stato estero di collaborare per la punibilità di un comportamento ai suoi occhi pienamente lecito; come se il tribunale di uno stato fondamentalista chiedesse di mettere a morte un suo cittadino che in Italia si macchiasse di blasfemia per i contenuti di un romanzo o di una vignetta. D’altro canto, però, quando ne va della Gpa, certi segmenti della sinistra ritengono che, quantunque inefficace, il reato universale individui un problema concreto.
Secondo molte donne, e molti uomini che ne condividono le ragioni, la Gpa, prima che reato individuale, è un male pubblico, che per una volta sembra giustificare la postura tipicamente ideologica dell’esecutivo. La donna è vittima della fame predatoria di chi vuol mettere al mondo senza avere l’utero e pensa di poter espiantare il bambino dalla relazione ancestrale con chi l’ha tenuto in grembo per nove mesi. Il rischio è non solo che la gestante venga sfruttata e poi privata dell’ingenito affetto verso il frutto del suo seno, ma che si innesti nella coscienza pubblica l’idea di una procreazione senza la donna, di quest’ultima suggellando la rinnovata dispensabilità dopo secoli di marginalizzazione sociale e politica.
Chi scrive non è del tutto convinto che non esistano forme di regolazione della Gpa che tutelino al meglio tutte le parti coinvolte, benché comprenda le ragioni di chi, perlopiù donna, sostiene che un uomo non possa capire cosa qui c’è in gioco né mai potrà. Ma non è questo il tema che qui mi preme. Mi chiedo piuttosto se davvero lo strumento del manifesto etico sia il più appropriato: un gesto politico vistoso, che mette a tacere il dibattito e chiude col sigillo coartante del diritto penale una questione che sarebbe da dibattere il più a lungo possibile, al netto della sua tendenza a ingenerare conflitti pungenti.
Uno stato democratico assolve il proprio dovere costitutivo quando apre spazi di dibattito pubblico, in cui le diverse posizioni possano trovare una conciliazione o, là dove una conciliazione non sia all’orizzonte, argomentare senza termine e produrre così sapere sociale. Quando invece il legislatore pretende di parlare ex cathedra, ed esercita l’uffizio di Dottore universale della morale umana, traccia le linee di una dottrina sulla fede e sui costumi.
E l’uso cattedratico di uno strumento come il reato universale, a meno che non riguardi crimini di guerra o contro l’umanità, si espone a un rischio che preferirei non correre: oggi è la Gpa, domani un inedito delitto di blasfemia.
© Riproduzione riservata