È stato finalmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge (n. 127/2021) con cui il governo ha imposto l’obbligo di “green pass” per accedere a qualunque posto di lavoro: dalle pubbliche amministrazioni alle Autorità amministrative indipendenti, dagli enti pubblici economici a tutto il settore privato. Alcuni profili della nuova normativa - modificata nel testo definitivo rispetto a quello circolato dopo il Consiglio dei ministri - necessitano di chiarimenti.

Il decreto-legge

L’obbligo di certificazione verde nei luoghi di lavoro è stato imposto con decreto-legge, provvedimento basato su “necessità e urgenza”, ai sensi della Costituzione. Del resto, lo scorso luglio l’emergenza sanitaria è stata prorogata fino al prossimo 31 dicembre, e tali connotazioni sono date per scontate. Ma, da un lato, l’obbligo di “green pass” diventerà effettivo a partire dal 15 ottobre: la data di operatività del decreto – peraltro, pubblicato in Gazzetta Ufficiale sei giorni dopo la sua deliberazione - mal si concilia con le predette ragioni di urgenza. Il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, ha detto in conferenza stampa che si è voluto determinare un “effetto annuncio”. Ma ciò non fa venire meno le considerazioni di diritto.

In secondo luogo, il precedente decreto (n. 122/2021), che ha esteso l’obbligo di “green pass” a chiunque acceda agli edifici scolastici, era stato emanato solo una settimana prima della deliberazione di quello attuale, e circa un mese dopo il decreto che aveva imposto il pass ai lavoratori della scuola (n. 111/2021), che a propria volta era arrivato a breve distanza da quello che aveva sancito l’obbligo di pass per cinema, ristoranti ecc. (n. 105/2021). Si stentano a capire le ragioni “necessarie e urgenti” che giustifichino nuovi decreti da una settimana all’altra.

I controlli

Sia nell’ambito pubblico che in quello privato è prescritto «di possedere e di esibire su richiesta la certificazione verde COVID-19». Per il solo settore pubblico, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) potranno essere adottate «linee guida per la omogenea definizione delle modalità organizzative» delle verifiche. Per il settore privato, invece, ciò non è previsto. Saranno, quindi, i datori di lavoro privati a dover determinare, entro il prossimo 15 ottobre, le «modalità operative» dei controlli, con la possibilità di effettuarli «anche a campione», e preferibilmente «al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro», individuando con atto formale i «soggetti incaricati dell’accertamento e della contestazione delle violazioni degli obblighi» prescritti. In mancanza, i datori di lavoro saranno sottoposti a sanzioni.

Circa i controlli “a campione”, ci si domanda a quali parametri - in primis la frequenza – dovranno essere improntati i relativi modelli organizzativi al fine di evitare che, nel caso in cui insorga un focolaio nel luogo di lavoro, al datore siano addebitabili accertamenti insufficienti. Il rischio è che, per cautela, egli decida di acquisire la data di scadenza del pass del lavoratore, preferendo la violazione della privacy di quest’ultimo alle imputazioni, anche penali, di cui potrebbe essere oggetto in caso di contagi. Ci si chiede, poi, come potrà essere verificato il “green pass” di imprenditori o titolari di studi professionali oppure, in caso di più sedi di lavoro facenti capo al medesimo titolare, dei dipendenti delegati ai controlli in ognuna delle sedi.

Le disposizioni in tema di “green pass” «non si applicano ai soggetti esenti dalla campagna vaccinale sulla base di idonea certificazione medica». Con decreto-legge del luglio scorso era stata prevista l’emanazione di un Dpcm per «trattare in modalità digitale le predette certificazioni», così da assicurare «la protezione dei dati personali in esse contenuti», previo parere del Garante Privacy. Dopo circa due mesi il Dpcm non è ancora stato emanato e la riservatezza di chi è esentato da “green pass” continua a essere tutelata meno di quella di altri soggetti.

Conseguenze della violazione

I lavoratori sia pubblici sia privati che, «ai fini dell'accesso» ai luoghi di lavoro, violino l’obbligo «di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19» sono considerati «assenti ingiustificati fino alla presentazione della predetta certificazione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021», con sospensione immediata dello stipendio, ma «senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro». Tuttavia, in caso di accesso al luogo di lavoro in violazione dell’obbligo di “green pass”, restano ferme «le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di settore». Dunque, chi entri senza pass è comunque sottoposto ai provvedimenti previsti da regole attinenti allo specifico ambito professionale, che potrebbero sancire anche il licenziamento, a certe condizioni, per violazione di misure a tutela di salute e sicurezza nel luogo di lavoro.

Nelle imprese con meno di 15 dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata, «il datore di lavoro può sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione», comunque per non più di dieci giorni, «rinnovabili per una sola volta», e non oltre il 31 dicembre 2021. Visto che per le aziende con più di 15 dipendenti non si parla si sospensione del rapporto di lavoro, né di possibilità di sostituzione degli assenti ingiustificati per mancanza di “green pass”, la lettera della legge induce a reputare che questi ultimi non siano sostituibili. Ma ciò lascia perplessi, e appare difficilmente praticabile almeno là dove il lavoratore ricopra posti chiave o operi a copertura di specifici ambiti (servizi, aree, ecc.).

Trasparenza

È vero che il “green pass” è uno strumento di libertà, perché consente una vita - lavorativa e non - quasi normale. Al contempo, tuttavia, esso è anche una limitazione della sfera giuridica personale, condizionando l’accesso a luoghi e attività.  E allora, come per ogni altra limitazione, se ne dovrebbe comprovare la proporzionalità e la necessarietà in relazione al rischio cui oggi la collettività è esposta a causa dei non vaccinati, i quali – nelle intenzioni del legislatore – sarebbero indotti a immunizzarsi dall’obbligo di pass per poter fare quasi qualunque cosa. Il governo dovrebbe dimostrare perché, nonostante siano state raggiunte le percentuali di copertura previste dal piano vaccinale, esse non siano ancora sufficienti. Soprattutto, servirebbe chiarire l’obiettivo da conseguire, ottenuto il quale si potrà dire che il Paese è stato messo in sicurezza e che il pass non serve oltre: non basta indicare una scadenza, che potrebbe essere prorogata. Occorre rendere conto delle scelte, anche e soprattutto se “politiche”. Invece, dall’inizio della pandemia c’è un deficit di trasparenza. L’emergenza sanitaria è destinata a terminare, invece il vulnus di questa mancanza segnerà anche in futuro le valutazioni della gestione sanitaria sul piano del diritto.

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