Abbiamo assistito a uno slittamento progressivo e accelerato dei moderati-conservatori verso destra. Il risultato è sotto i nostri occhi. Viviamo una divaricazione incolmabile tra una destra sempre più estrema e una sinistra (inutilmente) moderata
Una delle motivazioni che vengono avanzate per spiegare la sconfitta di Kamala Harris è di essersi spostata troppo a sinistra perdendo consensi moderati. Una accusa che risuona sempre quando si parla di un candidato progressista, mentre la stessa critica non emerge mai nei confronti di politici di destra. Quando questi perdono non vengono tacciati di estremismo, di aver evocato temi troppo divisivi, reazionari, antiliberali o quant’altro.
Ma i candidati di destra hanno forse vinto spostandosi al centro? Forse che Giorgia Meloni ha attratto elettori moderati gridando dal palco spagnolo di Vox il suo furore clerico-reazionario o lodando Putin nel suo libro di grande successo pubblicato l’anno prima delle elezioni? (Detto en passant, alla Schlein o a Conte si fanno le bucce quando invocano la fine delle ostilità in Ucraina benché non abbiano mai detto una parola a favore di Putin, mentre Meloni, Salvini e Berlusconi si sono profusi in salamelecchi nei confronti dell’autocrate del Cremlino ma non sono inchiodati alle loro responsabilità: mistero).
E, per tornare alle elezioni americane, Trump è riuscito ad attrarre dei moderati con propositi soft e dialoganti? No, ha vinto perché ha radicalizzato lo scontro, perché si è inserito in quel processo di polarizzazione del conflitto politico in atto in tutto l’Occidente da molti anni, e che continua con alterne fiammate. Da dove nasce allora questa illusione ottica della vittoria al centro e del rendimento elettorale di posizioni moderate?
Per render conto di una visione così diffusa tra analisti e osservatori va ricordata l’influenza che ha esercitato, direttamente e indirettamente, uno dei saggi più importanti del Dopoguerra, La teoria economica della democrazia, di Anthony Downs, pubblicato nel 1957. In questo lavoro si introduce la figura dell’elettore mediano, collocato al centro di una distribuzione statisticamente “normale” degli elettori lungo l’asse destra-sinistra. Questo implica che vi sia (ipoteticamente) una grande concentrazione di persone che si collocano in una posizione mediana, al centro, con due code molto più piccole, a destra e sinistra.
Ne risulta che quei partiti che si trovano vicino al centro hanno la possibilità di catturare il maggior numero di consensi perché il bottino di voti acquisibili è il più ricco. Quindi i partiti cercano di presentarsi all’elettorato con politiche “non estreme” proprio per accaparrarsi questo appetibile gruzzolo di voti e sottrarlo all’avversario che si muove con lo stesso obbiettivo. Questa impostazione teorica non cala dal cielo, bensì riflette la realtà degli anni Cinquanta, adattabile fino al ’68. Un mondo politico dove, al di là di una conflittualità forte in paesi con un partito comunista importante come Italia e Francia, regnava un consenso di fondo sui fondamentali del sistema e sulle grandi linee di politica interna e internazionale.
Non c’erano tensioni tali da mettere il sistema politico sotto stress. L’alternanza di governo soft tra laburisti e conservatori nei primi decenni postbellici, sotto l’egida del consenso keynesiano, esplicita il clima del tempo. Ma quel mondo è tramontato da anni sotto i colpi del neoconservatorismo e del neoliberismo. Da allora, lo spazio politico tra destra e sinistra si è allargato e la concentrazione degli elettori al centro è evaporata. E non per uno spostamento a sinistra dei socialisti. Tutt’altro: si sono sempre più accentrati e moderati.
C’è stato piuttosto uno slittamento progressivo e accelerato dei moderati-conservatori verso destra. Il risultato è sotto i nostri occhi. Una divaricazione incolmabile tra una destra sempre più estrema e una sinistra (inutilmente) moderata.
La polarizzazione ha svuotato completamente il mitico centro in tutte le democrazie occidentali, in Italia come negli Stati Uniti. In America, nel Dopoguerra, dominava l’idea del bipartisanship , cioè della condivisione di alcune scelte tra democratici e repubblicani; e il voto nel Congresso e in Senato tagliava spesso le linee partitiche. A partire dal Contract for America del repubblicano Newt Gingrich, lanciato nel 1994 contro la presidenza Clinton, si è rotto quello stile politico.
Nelle ultime legislature, durante le presidenze Obama e Biden, i repubblicani non hanno mai votato le proposte dei democratici. Il conflitto è diventato ultimativo. E vince, come dimostra Trump, chi si posiziona sulla “coda” più estrema dell’elettorato, perché solo così motiva il proprio campo: lo attrae e lo lega a sé, indipendentemente da cosa faccia. Altro che conquista dei moderati di centro. È la vittoria dell’esasperazione del conflitto senza quartiere. Un vae victis che vedremo dove porterà.
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