Nela tragica, non da oggi, situazione del Medio Oriente non può oggettivamente esserci un vincitore. Serve uno sforzo diplomatico che coinvolga Onu, Usa, Ue e paesi dell’area. E affidarsi, magari, all’esperienza dell’ex presidente americano
Nella tragica, non da oggi, situazione del Medio Oriente non può, oggettivamente e augurabilmente, esserci un vincitore. Gli israeliani sanno che possono annichilire Hamas e gli Hezbollah per un certo periodo di tempo, a un prezzo altissimo, ma non possono cancellare i palestinesi né, tantomeno, l’Iran.
Dal canto loro, i terroristi palestinesi e libanesi e la teocrazia iraniana dovrebbero avere acquisito la consapevolezza che, per rendere la Palestina libera “dal fiume al mare”, sarebbe inevitabile innescare un conflitto con rischi anche nucleari.
Nel primo caso, obiettivo che Netanyahu persegue quasi soprattutto per continuare a rimanere al potere, l’impossibile annichilimento non potrà che essere temporaneo. Con esagerato pessimismo, si può e, forse, si deve aggiungere, che, da un lato, soltanto la democratizzazione dell’intera area (una nuova primavera non solo araba), e, dall’altro, la fuoruscita di Netanyahu sostituito da governanti che imbriglino i coloni riuscirebbero a porre le basi iniziali minime di una soluzione ragionevolmente (avverbio al quale mi abbandono) duratura. Che quella soluzione significhi “due popoli, due Stati” è facile dirlo, ma di enorme difficoltà progettarlo. Compito da svolgere che avrebbe effetti curativi.
Nel frattempo, il progetto urgente consiste nel porre fine alle devastanti azioni e reazioni armate, magari riflettendo su come Hamas abbia potuto costruire un imponente e costosissimo reticolo di cunicoli variamente arredati e su come gli Hezbollah siano riusciti ad ammassare enormi quantità di armi e missili lungo un periodo ventennale. Fallimento delle (plurale) organizzazioni di intelligence oppure deplorevoli connivenze di alcuni stati che si compravano in questo modo sulla pelle degli altri la loro sicurezza interna?
Gli Usa, protagonisti indispensabili, non sono, in questa fase di campagna presidenziale, in grado di svolgere credibilmente le attività necessarie. C’è da augurarsi che chi entrerà nella Casa Bianca sia dotata (sic) della preparazione, delle conoscenze e della determinazione, o acquisisca tutto questo molto rapidamente, per farsi valere.
L’Unione europea, grande donatrice di fondi ai palestinesi, sembra essersi ritagliata uno spazio di profilo bassissimo in attesa che la nuova commissaria prenda pieno possesso della sua carica e si giovi del non avere bagagli pesanti provenienti dal passato. Tuttavia, forse, esiste un passato in grado di apportare qualcosa di positivo. Il punto più elevato di accordo fra israeliani e palestinesi fu raggiunto nel 2000 fra il primo ministro Ehud Barak e il presidente Yasser Arafat con la mediazione del presidente Usa Bill Clinton.
Qatar ed Egitto sembrano ragionevolmente in grado di esercitare qualche forma di mediazione, ma, se il conflitto in Palestina va oltre quell’area geografica, ci vuole qualcosa, molto di più. Pertanto, il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, per quanto sgradito a Israele, dovrebbe farsi dare dalla sua organizzazione un vero e proprio mandato da condividere con la commissaria europea Kaja Kallas e con alcune poche personalità accettabili tanto dagli israeliani quanto dai palestinesi (credibilmente rappresentati da chi?).
Dovrebbero essere proprio loro a indicare nomi accettabili di negoziatori. Personalmente, sono convinto che sarebbe opportuno fare ricorso all’esperienza dell’ex presidente Clinton. Libero da condizionamenti politici, forte del risultato ottenuto a suo tempo e sostenuto da alcuni suoi esperti collaboratori di un quarto di secolo, Bill Clinton sarebbe sicuramente in grado di esercitare un ruolo molto importante. Se no, chi?
© Riproduzione riservata