Almeno 40mila piccoli schiavi già a 6 anni scavano a mani nude il cobalto. Non più di dieci euro per tirar fuori in due giorni i dieci chili per una batteria al servizio della "rivoluzione verde"
- La piccola provincia del Lualaba, ex Katanga, che fornisce al mondo sviluppato il 70 per cento del cobalto che serve per le piccole batterie degli smartphone e per quelle massicce delle auto elettriche e ibride.
- Secondo l’Unicef sono oltre 40mila quelli che si calano nelle gallerie a età anche di 6-7 anni e scavano a mani nude per portare in superficie quantità sempre maggiori di cobalto. Per una batteria di un’auto elettrica ne servono una decina di chili, che sul mercato occidentale costano 300-350 euro, ma sono il frutto di due giornate di lavoro pagate tra i 3 e 5 dollari.
- Ai piccoli si aggiunge un esercito di sfruttati adulti, circa 160mila uomini e donne, ma anche ragazze che si occupano di selezionare, scartare e lavare il materiale estratto, esposte a ogni sorta di abusi.
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Fopo AP Photo/Schalk van Zuydam
Questa inchiesta è stata finanziata dai lettori di Domani.
Yanick ha 18 anni e preferisce non dire il suo cognome. Quando ne aveva undici ha incominciato a svegliarsi regolarmente in piena notte per aiutare il patrigno a mettere in sicurezza i pozzi della miniera di Kapata, vicino a Kolwezi, una città di 800mila abitanti della Repubblica Democratica del Congo, a 2mila chilometri dalla capitale Kinshasa. Yanick di giorno scavava a mani nude per ricavare un po’ di cobalto, ma a poca profondità. Quando il patrigno muore, capisce che toccherà a lui infilarsi senza protezione per 12 ore al giorno nei cunicoli.
Si salva per caso dal crollo di un pozzo che uccide una dozzina di suoi compagni, alcuni di appena 7 anni, e per vincere la paura inizia a drogarsi. "Un giorno – racconta – ero sceso a scavare senza sapere che là sopra una ruspa stava ricoprendo l’imboccatura del pozzo. Non c’era più aria in entrata, volevamo uscire e se non era per gli adulti che scavarono un’altra apertura, non ne saremmo usciti. Per un tempo infinito ho creduto che sarei morto sepolto vivo".
Benvenuti nella Cobalt Belt, la piccola provincia del Lualaba, ex Katanga, che fornisce al mondo sviluppato il 70 per cento del cobalto che serve per le piccole batterie degli smartphone e per quelle massicce delle auto elettriche e ibride. È il Congo del 21° secolo ma è peggio dell’Inghilterra del Settecento. È lercia la filiera della nostra energia pulita. Dalle batterie per le auto elettriche - che stanno conquistando il mercato - c’è una catena che risale direttamente ai bambini del Congo.
Colpa di auto elettriche e smarthphone
Secondo l’Unicef sono oltre 40mila quelli che si calano nelle gallerie a età anche di 6-7 anni e scavano a mani nude per portare in superficie quantità sempre maggiori di cobalto. Per una batteria di un’auto elettrica ne servono una decina di chili, che sul mercato occidentale costano 300-350 euro, ma sono il frutto di due giornate di lavoro pagate tra i 3 e 5 dollari.
Ai piccoli si aggiunge un esercito di sfruttati adulti, circa 160mila uomini e donne, ma anche ragazze che si occupano di selezionare, scartare e lavare il materiale estratto, esposte a ogni sorta di abusi.
Il cobalto si è trasformato da minerale negletto in "oro blu" in pochi anni. Con l’esplosione del mercato delle auto elettriche è schizzata la domanda di un materiale decisivo per la durata delle batterie. Il 30 per cento del prezzo di vendita di un veicolo green è determinato dalla batteria e questo spiega la rapida scalata nelle quotazioni delle borse mondiali del cobalto, fino a un decennio fa relegato nelle ultime posizioni del London Metal Exchange.
Con l’affermarsi delle auto elettriche e la diffusione di smartphone sempre più performanti, il prezzo del minerale ha raggiunto cifre record: nel solo 2017 è cresciuto del 120 per cento, superando i 90mila dollari a tonnellata. Ora si è assestato intorno ai 33-34mila dollari, ma la corsa all’oro blu, in piena deregulation, non si ferma.
Nel Lualaba, una provincia estesa come un terzo dell'Italia, giace tra il 60 e il 70 per cento del cobalto del mondo. È l’ultima maledizione per un paese che nei secoli ha regolarmente fornito ai paesi ricchi le materie prime – caucciù, oro, diamanti, rame, uranio – senza averne mai benefici ma solo guai: guerre, instabilità politica provocata dagli enormi interessi in gioco e, ultima in ordine di tempo, l'emergenza umanitaria e ambientale prodotta dalla caccia al cobalto.
Il settore estrattivo in Congo contribuisce al 22 per cento del Pil (prodotto interno lordo) e al 28 per cento delle entrate fiscali. Vista la domanda mondiale e la concentrazione dei giacimenti nei suoi confini, per il paese il cobalto potrebbe essere una grande ricchezza.
Eppure, nelle classifiche dello Human Development Report, il Congo sta al 176° posto su 188 paesi, con un’aspettativa di vita di 59 anni e il 77 per cento della popolazione al di sotto della soglia di povertà.
All'origine radice della drammatica storia di Yanick e di 200mila suoi corregionali c’è un business che in meno di dieci anni, ha trasformato un’area povera ma autosufficiente in un paesaggio lunare dove è scomparsa l'agricoltura e comprare dieci uova è diventata un’impresa.
La richiesta mondiale annua di 200mila tonnellate di cobalto (un affare da 6-7 miliardi) ha liberato una moderna corsa all’oro totalmente deregolata che ha fatto schizzare esponenzialmente i profitti delle compagnie della filiera – quasi tutte straniere – e fatto precipitare gli abitanti di Kolwezi e dintorni in un incubo sociale, con esiti mefitici per l’ambiente.
Le popolazioni che vivono nel perimetro di concessioni vengono regolarmente espropriate senza indennizzo e aumenta il fenomeno del land-grabbing, si scava tutto lo scavabile distruggendo ecosistema e persone.
La filiera delle batterie – così come di tutti quegli altri prodotti per i quali il cobalto è indispensabile come i motori dei jet, le turbine a gas, l’acciaio magnetico o le superleghe – ha molti snodi, tutti molto opachi. Il primo livello, il cosiddetto upstream, è rappresentato dalla estrazione vera e propria, poi ci sono la commercializzazione e la fase di fonditura e raffinazione.
Più a valle ci sono i produttori di componenti, le manifatture e gli assemblatori, per poi giungere ai grandi marchi di elettronica e di automobili e infine ai consumatori di smartphone e futuri acquirenti - anche grazie agli incentivi pubblici di molti paesi - di auto elettriche. Il filo rosso che lega tutti gli anelli della catena è la scarsa trasparenza nel percorso che conduce dalla miniera al mercato.
In cima alla catena ci sono le società di estrazione industriali che fanno capo a giganti del settore come la anglo-svizzera Glencore (215 miliardi di fatturato, tre volte l'Eni), leader mondiale dell'estrazione di cobalto, la cinese Huayou Cobalt (CDM), o varie joint venture cinesi-governo come Erg, Chemaf, China Molybdenum, Tenke Fukurume.
La successiva fase di raffinazione e fusione è quasi sempre appannaggio di grosse compagnie estremo-orientali. Più a valle ci sono le fabbriche di componenti e di batterie, anche qui la maggior parte asiatiche come le Panasonic, infine i grandi marchi dell’elettronica e dell’automotive.
Multinazionali con pochi controlli
Per capire la tragedia del Lualaba va spiegato come viene gestita l’estrazione del cobalto in quell’area. Il 70 per cento dell’attività mineraria è di tipo industriale. Le multinazionali del settore minerario acquistano le concessioni direttamente dal governo congolese e gestiscono l’intero processo di estrazione con criteri industriali e tecnologici. La Glencore, la numero uno, ha stabilito partnership con il governo che hanno sostituito il vecchio monopolio statale.
Il sistema garantisce un maggiore controllo, ma molte zone del processo restano grigie. Come denuncia la Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario (Focsiv), ad esempio, riprendendo i report delle associazioni Pain pour le prochain e Action de Carême, persistono sulla Glencore gravi dubbi riguardo a trasparenza e tracciabilità, così come sui diritti dei lavoratori e il rispetto dell’ambiente: si ascrivono alla multinazionale episodi di sversamento illegale, esproprio di terre, inquinamento.
Il restante 30 per cento dell’estrazione del cobalto a Lualaba è garantito da artigiani su piccola scala. In alcuni casi significa infilarsi nelle concessioni e cominciare a gestire in proprio, senza alcuna autorizzazione, l’estrazione del cobalto.
In altri, scavare i cunicoli letteralmente sotto casa o in terre di nessuno senza la minima protezione, privi di qualsiasi tipo di formazione o garanzia. Il fenomeno dei cosiddetti creuser (in francese "scavatori") si è dilatato nel giro di pochi anni e, complice il governo che permette a chiunque di divenire un minatore freelance, attrae congolesi dal resto del paese favorendo una sorta di inurbamento selvaggio.
In alcune concessioni si assiste a un fenomeno che potremmo chiamare di subappalto con le compagnie che formalmente appaiono come datrici di lavoro in regola ma che in realtà sfruttano il lavoro di gruppi di creuser con un sistema molto simile al nostro caporalato.
I minatori artigiani vendono quanto estraggono direttamente ai concessionari, ma esiste anche un mercato ancora più oscuro con intermediari che fanno il prezzo e che a un primo, misero livello si impadroniscono della giornata di lavoro e della vita di uomini, donne e bambini.
Non fosse stato per Amnesty International che nel gennaio del 2016, con il report "This is what we die for", ha costretto tutte le aziende della filiera a fare i conti con tracciabilità e rispetto dei diritti, il "popolo del cobalto" sarebbe rimasto invisibile.
Il rapporto ha anche innescato una serie di inchieste di Cnn, Bbc, The Guardian, Cbs e altre testate quasi tutte anglofone. Le ricerche e gli articoli a firma di studiosi come Siddharth Kara, docente ad Harvard e Berkeley, hanno fatto molto clamore e suscitato reazioni.
Una Ong americana in particolare, la International Rights Advocates, sul finire dello scorso anno ha chiesto alla Corte Distrettuale di Washington di autorizzare una class action a nome di 14 famiglie congolesi contro Apple, Tesla, Microsoft, Alphabet e Dell, ritenute responsabili in ultima istanza, alla fine della catena, di sfruttamento di minatori minorenni, della morte o delle patologie permanenti di molti di questi.
Dal secondo report di Amnesty International - "Time to recharge" - uscito nel 2017 per fare il punto della situazione a quasi due anni dal primo, uscivano male 29 aziende analizzate, a eccezione di pochissime come Samsung o Apple. Alcune, come FCA, Sony, General Motors, molto male. Altre, come Renault, Huawei, Microsoft, Lenovo, Vodafone, che in molte voci risultavano aver intrapreso no-action, malissimo.
Da allora sono passati tre anni e si sta diffondendo una consapevolezza del problema che può condurre ad effetti di cambiamento.
I consumatori finali del cobalto estratto in Congo incominciano a chiedersi in che modo le loro macchine elettriche o i loro telefonini siano prodotti e quanto le pressioni sulle aziende della filiera stiano portando a cambiamenti reali.
Soprattutto se lo chiede Yanick, e con lui i suoi piccoli compagni di lavoro, i loro padri e le loro madri. E tutta la provincia del Lualaba, benedetta da una preziosissima risorsa, maledetta da un mercato sbagliato.
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