Dopo la vicenda della consigliere regionale veneta sanzionata dal partito è nato un dibattito, male impostato, circa l’asserito disagio dei cattolici nel Pd. Si deve avere cura di non fare confusione nell’attribuire alla categoria religiosa di “cattolico” un senso politico
Avendo partecipato alla elaborazione della Carta dei principi del Pd, concepito come partito plurale e inclusivo di più sensibilità e culture, giudico un errore la pretesa di un pensiero unico sulle questioni eticamente sensibili. Come ha dato mostra di intendere il troppo zelante segretario veronese del Pd che si è precipitato a sanzionare la consigliera regionale dissidente in tema di fine vita.
Uno zelo sconfessato dai vertici nazionali e regionali che forse avrebbero dovuto essere più risoluti nel ribadire il principio che, al riguardo, non vige disciplina di partito. Anche per correggere il mezzo avallo a quella pretesa/forzatura fornita dal deputato Pd Alessandro Zan, responsabile Diritti del partito. Uno statuto ideale pluralistico del Pd che vanta una ragion d’essere e un valore di per sé, a prescindere dalla dicotomia laici-cattolici.
Cattolici e politica
Ne è sortito però un dibattito, francamente male impostato, circa l’asserito disagio dei cattolici nel Pd. A mio avviso, si deve avere cura di non fare confusione nell’attribuire alla categoria religiosa di “cattolico” un senso politico. Ma noto che è un’impresa quasi impossibile da noi. Lo sappiamo.
Ciò dipende dalle peculiarità della nostra storia politica e religiosa: l’eredità lunga della questione romana e il tempo, anch’esso lungo, della – ancorché relativa – unità politica dei cattolici nella Dc. Una eccezione e non una regola (come, sbagliando, si è indotti a pensare appunto perché protrattasi per mezzo secolo) originata anch’essa da peculiari ragioni storiche. In ispecie la questione comunista. Ma non da ragioni teologiche di principio.
Anche il più tradizionale magistero della chiesa contempla un legittimo e fisiologico pluralismo politico tra i cattolici. Così del resto è oggi, in punto di fatto, nei comportamenti elettorali dei cattolici italiani. Come attestano tutte le rilevazioni, il voto dei cattolici coincide quasi perfettamente con quello di tutti gli altri cittadini elettori.
Talvolta a generare tale confusione non sono solo i media inclini a fare coincidere i cattolici con gli ex Dc, ma gli stessi protagonisti che un po’ presuntuosamente si intestano la categoria di “cattolico” e che invece più opportunamente dovrebbero essere qualificati (e qualificarsi) politicamente. Con la propensione a considerarsi se non i soli certo i più degni eredi del miglior cattolicesimo politico.
Nel concorrere loro stessi a definirsi “cattolici” senza aggettivi rivelano, insieme, presunzione e insufficienza, ovvero un difetto di elaborazione di una propria identità in senso proprio politica. Da un lato rinunciando all’indebita pretesa di rappresentare tale identità politica come l’unica “cattolica”; dall’altro con l’ambizione di farla apprezzare in ragione della qualità eminentemente politica e programmatica di essa.
Esattamente in coerenza con la lezione sturziana dell’autonomia della politica dalla religione («la religione è il regno dell’universalità, la politica è il regno della parzialità»). Mai, con il suo Partito popolare, don Luigi Sturzo pretese di rappresentare l’unità politica di tutti i cattolici e conseguentemente concepì la sua creatura come «partito di programma». Dunque come «parte».
Curiosamente taluni ex popolari (qui intesi come esponenti del partito fondato da Mino Martinazzoli nel 1993) sembrano discostarsi dalla lezione del padre nobile del popolarismo. Da notare che oggi persino papa, vescovi e preti sono sommamente cauti nella pretesa di stabilire chi e cosa è “cattolico” nel concreto dell’azione politica. Per rispettare l’autonomia responsabile dei laici cristiani (“adulti”) e il loro pluralismo.
© Riproduzione riservata