Gli orrori della cronaca recente sembrano aver palesato agli occhi dei più come estinguere ogni delitto o violenza di genere sia un traguardo inderogabile di ogni progresso civile: un imperativo sociale urgente, non più un semplice auspicio. La medesima consapevolezza ha sferzato il dibattito non solo su quale sia il metodo più giusto per intervenire, ma anche sul modo in cui uomini e donne debbano contribuire in maniera distinta a questo percorso collettivo. Uno sprone incalzante, indifferente al lieve calo statistico di tali crimini: a prescindere dai dati, non siamo più disposti a tollerare alcuna prevaricazione originata da relazioni di potere così sedimentate nel tempo che ancora oggi infangano il nostro modo di vivere e agire. Non è un obiettivo irrealizzabile. Basti riflettere su come narrative non lontane nel tempo denigravano in modo sprezzante individui appartenenti a gruppi etnici diversi, o ai frequenti stereotipi sessuali di cui è intrisa la filmografia di pochi decenni fa: spigolature che nel presente vengono sempre più stigmatizzate senza appello. Oggi assistiamo, infatti, ad un progresso marcato che appare tanto necessario quanto, auspicabilmente, irreversibile. Ed è prevedibile che tale spinta continui, rigettando con perentoria convinzione tutti quei privilegi divenuti intollerabili allo sguardo contemporaneo.
La sfida allora è quella di comprendere fino a che punto tali atteggiamenti prevaricatori possano essere sradicati, domandandosi allo stesso tempo come sia possibile farlo senza sfociare in una rivoluzione violenta o in un atto di pura vendetta. Pene più aspre, maggiore educazione nelle scuole, campagne di sensibilizzazione mirate… sono tutti elementi concreti che possono contribuire a mitigare le statistiche, ma che rimarranno insufficienti se non si agisce a livello delle convenzioni sociali profonde su cui si è sedimentata la nostra comprensione del mondo. Scardinare i legami di potere di una “parte” su un’altra richiede, in ultima analisi, di ristabilire un nuovo equilibrio relazionale tra identità diverse. La criticità sta, tuttavia, nel riconoscere con precisione l’obbiettivo: contrastare questo sbilanciamento, non attaccare l’altro nella dignità della sua identità.
Chi si adopera per una società migliore non può che partire dalla consapevolezza che diritti e vantaggi non devono variare a seconda di chi siamo. E se così avviene ancora è perché esistono costrutti culturali che creano le condizioni perché tale ingiustizia venga perpetrata. Troppo spesso, infatti, si finisce per ritenere che certi benefici siano innati per alcuni, mentre sono solo vestiari simbolici che ammantano le identità più fortunate da sempre. Ma se a questi privilegiati è lecito chiedere di spogliarsi di essi, non si può altresì intimare loro di svestire la propria pelle. Se, infatti, una giustizia condivisa è possibile e doverosa, l’attacco a una identità collettiva finisce sempre per produrre ferite individuali. Possiamo sostenere che vengano eliminati i privilegi di un gruppo, ma se ci si sente colpiti per ciò che si è, si finisce per vivere l’attacco a livello personale. Una condizione in cui diventa difficile sviluppare l’idea di un diritto egualitario, in favore di una giustizia che rischia di diventare esclusivamente riparativa. Eppure, è proprio l’equità ad essere una parte essenziale di ogni progetto di convivenza: quel principio che ci vede impegnati a vivere insieme senza rinunciare alla nostra identità, ma anzi sfruttandone le peculiarità per il progresso di tutti.
Oggi, sia gli uomini che si sentono attaccati in quanto tali, sia chi li stigmatizza, dovrebbero riflettere su questo: avere la possibilità di esercitare un potere fisico, economico o morale su un nostro simile non è prerogativa della nostra identità, ma un “vantaggio” derivato dall’essere nati in un gruppo favorito dalla storia e dalla cultura. Possiamo spogliarci di esso e rimanere noi stessi. E tutti ne trarremmo giovamento.
© Riproduzione riservata