- L’affermazione di Draghi sui dittatori necessari rivela il realismo amorale sul quale si regge il senso dell’interesse nazionale e continentale delle nostre democrazie.
- Risulta assai conveniente essere circondate da regimi illiberali se vogliono intrattenere con loro questo tipo di affari: retribuirli affinchè tengano i migranti fuori dalle nostre frontiere.
- È quindi nell’interesse nostro che la Turchia o la Libia siano e restino “dittature”, poiché ciò le rende efficaci nella negazione dei diritti umani e quindi competenti a fare quel business che se fossero democrazie non potrebbero fare.
Una delle differenze tra chi amministra organismi non politici e chi governa un paese democratico è la forma della comunicazione – una differenza che dipende da un’altra: la natura del committente. Draghi presidente della Banca Centrale Europea e Draghi presidente del Consiglio italiano presumono “pubblici” diversi che richiedono forme diverse di comunicazione. A chi rende conto il primo Draghi e a chi rende conto il secondo Draghi – qui sta tutta la differenza. Lo stile e la forma della comunicazione seguono a ruota.
Il secondo Draghi, quello che vediamo nelle conferenze stampa, deve informare la cittadinanza tutta e rispondere a domande (a volte interesanti) che non sono sempre e solo tecniche.
Quella che offre non è un’informazione asettica ma una che si presta ad essere interpretata secondo sia criteri tecnici (riferimento ai dati e agli esperti) sia giudizi di valore (riferimento alle opinioni e alle valutazioni morali o politiche). Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha abbondato nei giudizi di valore.
Il terreno scivoloso
Nel campo genericamente detto politico, in parte tecnico in parte discorsivo, può succedere che la comunicazione trascini l’attore su un terreno scivoloso, condito di espressioni e concetti accattivanti perchè attento all’eco che avrà nell’audience. Stefano Feltri ha per questo paragonato la retorica di Draghi nell’ultima conferenza stampa a quella di un influencer. Draghi come Chiara Ferragni. Ma meno bravo di Chiara Ferragni, certamente perchè meno esperto di lei nelle dinamiche dei social. E così ha fatto due scivoloni che rivelano quanto sottile sia la linea che separa il tecnico dal populista nella democrazia del pubblico.
Non è questione di coscienza
Il primo scivolone (da rottura dell’osso del collo) è stato quello della colpevolizzazione dei furbi del vaccino: lo psicologo 35enne e coloro che, sotto i sessant’anni, “saltano la fila”. La reprimenda paternalistica di Draghi ha tradito una stupefacente disattenzione a come funziona il sistema di vaccinazione, che il suo governo regola e monitora.
Non si può saltare la fila, infatti, a meno di non violare le regole o per raccomandazione o per amicizia o per nepotismo. Diversamente, sono i sistemi di classificazione dei vacciananti – per gruppi sociali, professionali ed età – a stabilire chi si vaccina e quando.
L’appello alla “coscienza” è fuori luogo in entrambi i casi: nel primo, perché lì si tratta di violazione di una norma; nel secondo, perché qui si è dentro la norma. Dal che si evince che ad essere oggetto di reprimenda non devono essere in non sessantenni che si vaccinano, ma chi prevede che questo possa succedere.
L’Italia ha molti decessi perché chi la governa ha predisposto pessime regole. Draghi, insomma, dovrebbe volgere il suo giudizio critico verso le strategie e le regole che il suo governo e quello delle regioni (che lui stesso ha giustamente ricordato essere parte del governo) hanno adottato.
Gli errori, le cattive decisioni, le confusioni, le ingiustizie sono di chi fa le regole, non di chi le usa. Non scomodi dunque la coscienza di chi si vaccina potendolo. Faccia un esame critico alle decisioni del suo governo e della filiera che da esse si dirama: sembra infatti che questo stia facendo a giudicare dalle recentissime decisioni di metter in sicurezza vulnerabili e anziani.
Che fare coi dittatori
Il secondo scivolone riguarda l’infelicissima affermazione sulla necessità che i buoni (i paesi democratici europei) hanno di far affari con i cattivi (i «dittatori» come Recep Tayyp Erdogan). Dice Draghi che non possiamo fare diversamente se vogliamo difendere il nostro interesse nazionale e continentale.
Lasciamo stare qui la disquisizione su quale sia la forma di governo che meglio si addice alla Turchia, benché la scienza politica avrebbe dubbi nell’etichettarla come “dittatura”.
Quel che preme mettere in luce è altro: il realismo amorale sul quale si regge il senso dell’interesse nazionale e continentale delle nostre democrazie. Per le quali risulta assai conveniente essere circondate da regimi illiberali se vogliono intrattenere con loro questo tipo di affari: retribuirli affinchè tengano i migranti fuori dalle nostre frontiere.
Se Libia e Turchia fossero democrazie liberali questo nostro “interesse nazionale” o continentale non potrebbe essere perseguito per queste vie.
E’ quindi nell’interesse nostro che la Turchia o la Libia siano e restino “dittature”, poichè ciò le rende efficaci nella negazione dei diritti umani e quindi competenti a fare quel business che se fossero democrazie non potrebbero fare. E dichiarandole “dittature” mettiamo la nostra coscienza in pace con se stessa. Loro sono il male, non noi.
© Riproduzione riservata