- Nonostante molte voci che chiedono una pausa, la Fed e la Bce continuano a marciare unite contro l’inflazione alzando i tassi, e sono pronte a spingere l’economia in recessione se necessario.
- Questa politica ha un precedente storico, la disinflazione degli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta, quando il chairman della Fed Paul Volcker attuò una restrizione monetaria senza precedenti.
- La terapia d’urto effettivamente riportò l’inflazione sotto controllo, ma al prezzo di un aumento esponenziale della disoccupazione. Essa inoltre piantò i semi dell’instabilità del settore finanziario che venne poi alla luce nel 2008.
Le banche centrali delle due maggiori economie mondiali, gli Stati Uniti e l’Eurozona, marciano ormai affiancate contro l’inflazione.
A distanza di una settimana, prima la Bce e poi la Fed americana hanno annunciato un altro aumento sostanziale dei loro tassi di interesse.
Al di là delle misure adottate (e dell’annuncio che ci saranno altri aumenti), quello che colpisce è il tono delle dichiarazioni dei due presidenti, Christine Lagarde e Jay Powell.
La prima ha detto che la politica restrittiva continuerà «anche se l’economia dovesse entrare in recessione», fin tanto che il tasso di inflazione non sarà sotto controllo; il secondo ha riconosciuto esplicitamente che un «atterraggio morbido», riuscire cioè a riportare l’inflazione verso l’obiettivo della Fed senza mandare l’economia in crisi, è ormai molto poco probabile.
Queste dichiarazioni colpiscono perché arrivano proprio quando si levano sempre più insistenti le voci di coloro che chiedono una pausa nella normalizzazione dei tassi, per dare tregua ad un’economia sempre più indebolita e ad imprese e famiglie sempre più in difficoltà.
Entrambe le banche centrali hanno insomma voluto segnalare che la situazione contingente non le spingerà a cambiare strategia: il whatever it takes del 2022 è la battaglia contro l’inflazione.
Spezzare le reni all’inflazione
In questo quadro, non ci si può esimere dal ripensare alla brutale restrizione monetaria orchestrata dall’allora chairman della banca centrale americana, Paul Volcker, alla fine degli anni Settanta.
Gli elementi di somiglianza sono in effetti numerosi. Quando Volcker prese le redini della Fed, nell’estate del 1979, l’economia statunitense veniva da un decennio turbolento, con shock a ripetizione (quelli petroliferi su tutti) che avevano portato a tassi di inflazione elevati e ad un’economia febbricitante sia pur non in crisi (il tasso di disoccupazione era poco più alto del livello all’epoca considerato di equilibrio).
Anche allora la Fed e le altre banche centrali avevano esitato a tirare il freno, preoccupate per gli effetti sulla crescita; l’unica eccezione era la Germania, che aveva imboccato la via della restrizione già nel 1974.
Con Volcker, in perfetto stile Hollywoodiano (le decisioni furono prese in una riunione convocata in segreto e di sabato, il 6 ottobre 1979), la musica cambiò rapidamente.
La Fed alzò i tassi (che schizzarono fino a sfiorare il 20 per cento nel 1981) e sia pure con qualche difficoltà riuscì a riportare l’inflazione dal 13 per cento di inizio 1980 a meno del 4 per cento a fine 1982.
I costi del “successo” di Volcker
Questo “successo” così celebrato in seguito, tuttavia, ebbe un costo economico e sociale senza precedenti. L’economia americana sperimentò due recessioni in poco più di due anni e il tasso di disoccupazione esplose passando dal 5,6 per cento del 1979 al picco dell’10,8 per cento nel 1983.
Uno dei consiglieri di Ronald Reagan, in un testo impressionante per l’uso di metafore guerresche, qualche anno dopo ebbe a dire che «per stabilire la sua credibilità, la Federal Reserve ha dovuto dimostrare la sua volontà di versare sangue, molto sangue, sangue di altre persone».
La disinflazione ebbe anche un altro effetto, poco discusso ma potenzialmente rilevante oggi. L’aumento dei tassi di interesse americani provocò un rafforzamento del dollaro e un aumento dei tassi di interesse dei paesi emergenti e in via di sviluppo, innescando la crisi del debito in America Latina. È ovvio che il pensiero oggi va alle tensioni sugli spread dei paesi dell’Eurozona.
Disinflazione e instabilità
Più a lungo termine, quell’esperimento potrebbe aver piantato i semi dell’instabilità di oggi. È interessante, ad esempio, il dibattito che, alla luce della crisi del 2008, rivisita il lungo periodo di inflazione moderata e crescita stabile che seguì alla disinflazione degli anni Ottanta.
La cosiddetta Grande moderazione è stata a lungo interpretata come una sorta di fine della storia: banchieri centrali, competenti e finalmente resi indipendenti dalle pressioni indebite dei governi (si ricordi che il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia da noi avvenne proprio nel 1981), hanno potuto usare la politica monetaria per stabilizzare l’inflazione e consentire ai mercati di operare per la crescita in modo ottimale;
L’ex chairman della Fed Ben Bernanke, premio Nobel per l’economia poche settimane fa, è uno dei proponenti di questa interpretazione. La disinflazione del 1979-80 è letta proprio come il punto di partenza di quel lungo periodo di benessere e stabilità, contribuendo all’aura di Volcker come il capostipite dei virtuosi della politica monetaria.
Altri invece leggono la svolta di Volcker come uno dei fattori che avviò la finanziarizzazione dell’economia, contribuendo alla stagnazione della produttività e al proliferare di bolle speculative che da allora hanno tormentato l’economia.
La Grande moderazione, insomma, è stata un periodo di calma apparente in cui la stabilità dei prezzi nascondeva squilibri crescenti nei mercati finanziari, che i banchieri centrali hanno lasciato correre fino al punto di non ritorno della crisi finanziaria globale.
La lezione per l’oggi, tuttavia, non è in quello che è accaduto, ma in quello che si sarebbe potuto fare in alternativa. È vero che il bagno di sangue era inevitabile? È vero che, come ebbe a dire Margaret Thatcher più o meno in quegli anni riguardo alle riforme liberiste, There is no Alternative?
No, non necessariamente. Il motivo per cui tutti guardano alla politica monetaria è la convinzione diffusa che l’inflazione sia sempre un fenomeno monetario.
L’esperienza di questi mesi, con aumenti dei prezzi limitati ad alcuni settori e causati da colli di bottiglia e tensioni geopolitiche, mostra che questa convinzione è errata, e che la restrizione monetaria è uno strumento costoso e inefficiente.
Proprio gli Stati Uniti, in passato, hanno utilizzato la politica dei redditi e misure amministrative mirate per combattere l’inflazione senza farla piombare in recessione.
Ad esempio, imporre dei controlli di prezzo non ha nulla del dirigismo tanto temuto in alcuni ambienti; equivale semplicemente a riconoscere che in situazioni straordinarie (rendite, difficoltà di produzione, instabilità) alcuni mercati non riescono ad operare in modo efficace, e sospenderne temporaneamente ed eccezionalmente il funzionamento è benefico per la società.
Seguendo il precedente di Volcker, la Fed e la Bce hanno ormai intrapreso con decisione la strada di spezzare le reni all’inflazione. Lagarde e Powell farebbero però bene a studiare con attenzione anche cosa successe dopo il 1982.
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