I 7,5 milioni di compenso al nuovo amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, hanno fatto scalpore. Non solo per la cifra, ma anche per il voto contrario di quasi il 43 per cento dei soci. Una situazione che evidenzia quanto il problema dei compensi sia rilevante e riguardi non solo i vertici societari, ma tutti i manager, bancari e non.

Il talento costa: non per nulla Orcel è stato accostato a Cristiano Ronaldo. E il compenso di un top manager dovrebbe essere prevalentemente commisurato a merito, responsabilità e risultati ottenuti.

Per questo vanno respinti criteri vincolanti (come tetti agli stipendi o al rapporto tra il compenso più elevato e quello medio), o non correlati al merito (come anzianità o titoli) che prevalgono impropriamente nella pubblica amministrazione.

Chi paga il talento?

Se c’è un unico azionista, il problema non si pone: chi decide ne sopporta interamente le conseguenze. Con un azionista di controllo, questi potrebbe trarre benefici a spese delle minoranze dal potere implicito di nominare i vertici aziendali e fissare la struttura dei compensi, specie se socio di controllo e capo azienda coincidono. Nelle società a capitale diffuso, come Unicredit, il potere è formalmente nelle mani di un comitato di consiglieri di amministrazione in prevalenza indipendenti: in quanto tali però non patiscono danni da decisioni errate, né vantaggi da quelle giuste. Così il comitato quasi sempre ricorre a società specializzate, che parametrano il compenso a quello di posizioni simili in società del settore, finendo così per perpetuare la struttura dei compensi esistente.

Di fatto la decisione viene ad essere influenzata da qualche azionista rilevante, anche se non ne ha né il diritto né la quota di controllo.

Un ruolo importante spetterebbe al presidente, che dovrebbe essere forte e autorevole, caratteristiche però che nessun amministratore delegato vede di buon occhio. Pare che il mancato accordo di Orcel con Santander sarebbe dovuto anche ai contrasti con la presidente Anna Botin.

Per ovviare al problema il regolatore ha imposto alle società quotate la trasparenza nei confronti degli investitori e, per le banche, l’esplicita approvazione da parte dell’assemblea della politica di remunerazione.

È però altamente improbabile che un’assemblea rigetti una nomina o un compenso, perché, realisticamente, la proposta del consiglio sarà stata negoziata prima, informalmente, con qualche socio rilevante, e perché un investitore che sconfessa il vertice aziendale rischia di danneggiare il proprio investimento. Alla fine, l’unico vero potere che hanno i soci è votare coi piedi, cioè vendere il titolo.

Il tetto massimo agli stipendi

A seguito della crisi finanziaria, la Bce ha richiesto che ci sia un tetto massimo al rapporto tra compenso variabile e fisso per tutti i top manager (2 nel caso Unicredit); e una legge europea ha imposto una tassa addizionale del 10 per cento sui bonus che eccedono di tre volte il fisso.

Provvedimenti demagogici e dannosi perché hanno soltanto fatto lievitare i compensi fissi, anche per mantenere il rapporto coi variabili inferiore a 3, ma riducendo così la flessibilità dei costi in caso di crisi; l’opposto di quello che si vorrebbe.

La finalità era ridurre l’incentivo per i manager ad assumere rischi eccessivi. Ma per questo obiettivo c’è già la regola, più efficace, di diluire il pagamento dei bonus su più anni, con il diritto di bloccarli in caso di comportamenti che a posteriori risultassero negligenti: una regola che forse dovrebbe essere estesa a tutte le società quotate.

Dai bonus ai rischi

Inoltre, i bonus non sono la principale fonte dei rischi, né limitarli è un valido deterrente.  Lo dimostrano i recenti dissesti e disavventure di grandi istituzioni finanziarie: Wirecard; Credit Suisse; Greensill o la cinese Huarong (il cui amministratore delegato è stato giustiziato).

La causa principale è la scarsa comprensione da parte del consiglio di amministrazione dei rischi insisti nell’attività aziendale, e quindi l’incapacità di valutare l’adeguatezza del risk management.

La ragione risiede nei profili professionali prevalenti nei consigli (legali, tributari, contabili) e nei criteri di cooptazione (come indipendenza, quote rose, o prestigio) che trascurano conoscenza del business e competenze specifiche.

I consigli delle grandi aziende sono poi diventati una specie di club esclusivo: appartenervi comporta il rispetto dell’etichetta e di consolidate regole non scritte.

Con una formula ormai rituale, si dichiara che il compenso variabile di Orcel viene pagata in azioni di Unicredit per allineare i suoi interessi a quelli gli azionisti. Ma il titolo Unicredit potrebbe raddoppiare o dimezzarsi a seconda dell’andamento dei mercati, a prescindere da Orcel.

Se gli interessi di management e azionisti devono essere allineati, i parametri per i compensi devono essere coerenti con gli obiettivi. Se si vuole ridurre il gap di valore con Intesa un parametro adeguato potrebbe essere il rapporto tra capitalizzazione e patrimonio netto (quello di Intesa è oggi il doppio). Più efficienza?  Meglio parametrare i bonus al rapporto costi/ricavi e al rendimento sul capitale.

La regolamentazione dei compensi crea poi potenziali conflitti con i diritti e garanzie (indennità, preavvisi, patti di non concorrenza, giusta causa) stabiliti da contratti privati e di categoria (dirigenti), codice civile e diritto del lavoro.

E’ necessaria una riorganizzazione dove dovrebbe prevalere il principio generale di correlazione inversa fra compensi e il livello di tutele e garanzie, per evitare che si ottengano bonus se le cose vanno bene, ma si invochino tutele se vanno male.

Un cervello di rientro?

Infine, il capitolo imposte. I 5 milioni di compenso variabile verranno corrisposti a Orcel in azioni. Se sotto forma di grant, ovvero compenso in natura, sarebbero tassati all’aliquota marginale del 45,54 per cento (con le addizionali regionali e comunali). Ma se Orcel usufruisse dell’agevolazione per il “rientro dei cervelli” (espatriati che spostano la residenza in Italia) abbatterebbe l’aliquota a meno del 14 per cento per almeno 5 anni: 2,3 milioni di imposte in meno l’anno su 7,5 di compenso, omaggio del contribuente.

C’è poi la possibilità di trasformare i compensi in redditi di capitale, tassati al più favorevole 26 per cento. Per esempio, tramite warrant o stock options, dove la liquidazione a scadenza del capital gain, rispetto al prezzo di esercizio, costituisce il compenso tassato al 26. Oppure tramite il rendimento di uno strumento in cui il manager abbia investito appena l’1 per cento, se detenuto per più anni (schema in uso nel private equity noto come carried interest, ma applicabile in generale).

Sacrosanto incentivare il management tramite l’investimento pluriennale in capitale di rischio, ma questa è una giungla. Basterebbe tassare tutte queste tipologie di compensi differiti alla normale aliquota marginale, riducendola però del 4 per cento per ogni anno di investimento: in 5 anni si arriverebbe al 26 per cento, ma uniformando trattamenti e semplificando il sistema.

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